giovedì 20 giugno 2013

Paradigma ...


Destra e sinistra oggi


Dinanzi alla frequente insinuazione per cui non vi sarebbero più, oggi, né destra né sinistra in ambito politico; di fronte al crescente qualunquismo dell'opinione pubblica, la quale percepisce gli atti dello Stato come neutri, o meglio semplicemente quali volti al bene dei cittadini e della nazione oppure, al contrario, quali volti al loro male - come se non esistessero idee storiche di base su cui questi atti si fondano e istituiscono - occorre indicare quali siano, nell'era contemporanea, le posizioni di destra e quali invece quelle di sinistra in senso globale. Dichiararsi infatti di destra o di sinistra, oppure militare in un partito che si dichiari di destra o di sinistra, non è sufficiente a porre la distinzione, distinzione che in tal caso risulterebbe essere meramente nominale e non essenziale.
Si ritrovano innanzitutto i cosiddetti estremismi, che si incarnano, da un lato, nel neo-fascismo/neo-nazismo e simili, e, dall'altro, nel neo-comunismo/neo-anarchismo e formazioni analoghe. Quel che codeste formazioni possiedono in comune è il fatto di essere anti-capitaliste, laddove il capitalismo (nella sua forma rinnovata di neo-capitalismo), si mostra quale paradigma dominante della nostra epoca. Il loro vizio, anch'esso comune, è l'assenza di una visione alternativa concreta e plausibile del potere, e il loro essere perciò volti alla mera distruzione dei sistemi economico-politici esistenti, nella mancanza di una pars construens adeguata.
Di contro a ciò vi sono poi i ben più realistici, e quindi maggioritari, schieramenti moderati, cioè i gruppi, entrambi compresi all'interno del paradigma dominante suddetto, neo-liberista/monetarista e neo-keynesiano/socialista. Non è un caso che si tratti di raggruppamenti ideologici di stampo economico innanzitutto: nel nostro tempo infatti la categoria politica si è vista surclassata, in rilevanza, dalla categoria economica, e pertanto è l'economia a presentarsi come egemone e, di conseguenza, a determinare la politica, e non viceversa, come fu in un passato neanche troppo lontano.
Nella mancanza di concretezza dei primi due termini presentati (di cui il secondo risulta comunque immensamente utile nell'individuare, da una prospettiva esterna, le storture sociali altrimenti non individuabili e nel contribuire con forza al loro raddrizzamento mediante lotta di classe), la destra e la sinistra coincidono propriamente, e rispettivamente, con il movimento neo-liberista e monetarista, e con quello neo-keynesiano e socialista. Si ha poi l'eccezione nordica, ovvero la via di mezzo tra le due opposte configurazioni precedenti.
La destra neo-liberista e monetarista è la via prevalente in Nord-America, Europa e Giappone, ed ha come suoi principi la proprietà privata, lo Stato minimo, la deregulation, la sorveglianza sul debito pubblico e sull'inflazione. Ciò vuol dire: economia in mano ai privati, non-interferenza del settore pubblico, politiche di limitazione e di controllo dell'offerta di moneta. Suo vizio: una visione elitaria e ipocrita del potere.
La sinistra neo-keynesiana e socialista è la via prevalente nell'area dei B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ovverosia dei paesi emergenti, ed ha come principi cardine la proprietà pubblica, lo statalismo, la regolamentazione del mercato, gli investimenti produttivi. Il che significa: economia in mano allo Stato, settore pubblico dominante, politiche monetarie espansive. Suo vizio: una visione autoritaria e dispotica del potere.
Si hanno dunque due modi diversi di intendere il libero mercato e la concorrenza, i quali restano gli elementi essenziali del paradigma capitalistico, assieme all'export quale sorgente primaria di ricchezza.
L'eccezione nordica, così definita in quanto via prevalente nei paesi scandinavi: Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, si presenta infine come un socialismo liberale, laddove principi sono, da un lato, la proprietà privata e la deregolamentazione; dall'altro, lo statalismo - soprattutto per quanto riguarda il Welfare - e gli investimenti produttivi. In definitiva una mediazione virtuosa di cultura Nord-Occidentale e cultura Sud-Orientale, di destra e sinistra nelle loro espressioni migliori.

Non vi è altra via percorribile oltre queste tre, e occorre pertanto schierarsi da una parte o dall'altra.  

Costanti ...


Categorizzazione degli schieramenti politici nell'invarianza delle loro manifestazioni storiche


Storicamente, per quanto riguarda gli schieramenti politici, vi sono sempre una destra e una sinistra all'interno di ogni società umana - non soltanto in quelle società che adottano il sistema partitico - le quali poi si suddividono a loro volta ognuna in una formazione radicale e una invece moderata. La distinzione è data dalla natura delle idee animanti i movimenti in questione.
La destra radicale è reazionaria, ovvero il suo scopo è quello di ripristinare uno stato di cose precedente, andato oramai perduto. Essa è dunque essenzialmente una formazione anacronistica, e il suo perno, in quanto destra estrema, è la violenza, giacché solamente mediante violenza si può sperare di ricostituire ciò che di fatto non si dà più in quanto struttura superata dal trascorrere del tempo e dall'evolvere delle organizzazioni pubbliche.
La destra moderata è conservatrice, ovvero suo fine ultimo è il mantenimento dello stato di cose vigente. Lo strumento per la salvaguardia dell'assetto attuale, che si dà nel presente, è la riforma, intesa come svolgimento e approfondimento di ciò che già è, espansione di tale assetto in ogni angolo dell'esistente, anche laddove non sia ancora giunto a compimento, sino a che esso non pervada interamente la struttura sociale. 
Di contro a codeste formazioni ideologiche vi sono movimenti opposti e speculari, che si contendono con le precedenti il dominio dello Stato in un dato periodo e luogo.
La sinistra moderata è progressista, ovvero il suo fine è il mutamento dello stato di cose vigente, essendo tale mutamento inteso come scardinamento e miglioramento della struttura sociale. Anche qui si ha la riforma quale strumento privilegiato d'azione, in vista però di un superamento di ciò che si dà nel presente, in una prospettiva innovativa e sperimentale, ricercante il nuovo (a costo di affrontare un rischio di peggioramento e di fallimento) e volta dunque al futuro. 
La sinistra radicale è rivoluzionaria, ovvero suo scopo dichiarato è abbattere la forma vigente per poi riedificare dalle fondamenta una forma altra che si presuppone ottima e pertanto preferibile rispetto alla precedente, concepita all'inverso come pessima. Qui pure la violenza risulta necessaria: preliminare alla creazione è infatti la distruzione. Una tale visione è, per essenza, utopica, in quanto muove verso qualcosa che, in determinate condizioni, ancora non si è mai dato, se non nell'immaginazione del rivoluzionario. 
Assieme a queste formazioni possono inoltre presentarsi schieramenti che si definiscono di centro, ma che in realtà risultano essere indissolubilmente legati all'una o all'altra fazione. 
Non importa, infine, chi sia, alternativamente, a dominare le istituzioni: sia le formazioni di destra, sia quelle di sinistra, mediante le idee di cui sono portatrici - le quali si declinano in un modo o nell'altro a seconda dell'epoca di riferimento e delle configurazioni politiche in essa sussistenti - influenzano inevitabilmente la cultura in cui si trovano ad agire, seminando germi di sé nel tessuto sociale, pronti a germogliare quando se ne diano le condizioni. 
  

Fazioni ...


(Forma metrica: verso di quindici sillabe)


La Regola mediatrice


Ottimati e Popolari si fronteggiano ostili
e incolmabile è in verità la lontananza loro;
simili a particelle d'opposta carica, mai
s'uniscono, se non sottoposti a forza maggiore.
Necessità è delle idee la disuguaglianza estrema
la Politica ne vive, e tale è la sua legge:
che v'è una Destra e una Sinistra in ogni società
e nient'altro che la scissura è fondamento certo
dello Stato e del suo procedere spedito. Dico:
 da un lato e dall'altro si mostran valori, intrisi
di senso, e come pendolo oscilla ciò ch'è stabile
tracciati irregolari eternamente disegnando
inquieto, a generar la Regola mediatrice.

sabato 11 maggio 2013

Bruttezza ...


Politiche infrastrutturali e imbruttimento dei paesaggi


Le scellerate politiche infrastrutturali delle nazioni del mondo hanno come risultato il deturpamento della bellezza del paesaggio. Laddove la natura viene sostituita dall'artificio umano si ha, infatti, in pari tempo un imbruttimento, ovverosia una perdita di grazia, armonia e perfezione; tutto ciò che vien fuori dalla mano dell'uomo è sgraziato, disarmonico, imperfetto se non ha come suo modello ciò che vien fuori dalla mano di Dio. I terreni, dunque, vengono cementificati, il cieli e le acque oscurati dai fumi e dai liquami dell'inquinamento, gli alberi sono abbattuti e sostituiti da immensi quanto sgradevoli palazzi, nonché da tetri edifici in metallo, le luci delle stelle sono soppiantate dalle luci dei lampioni, e con la scomparsa del verde dei campi si fa avanti il grigio delle città. Tutto ciò non può che avere un risultato soltanto: la perdita del piacere della percezione. 
Tutto ciò che prima procurava alla vista - ma anche agli altri sensi, odori, sapori e suoni naturali - diletto ora è del tutto scomparso o sta gradualmente scomparendo, e addirittura, nell'abitudine a vivere in un ambiente spiacevole, si è disimparato a riconoscere il bello. Inoltre, se quel diletto aveva come risultato il far sorgere nell'animo serenità e letizia, ora al contrario la presenza del brutto fa sorgere nient'altro che irrequietudine e malinconia (e anche questo, checché se ne dica, contribuisce alla felicità o infelicità di una persona). Pertanto, occorre invertire la rotta se non si vuole giungere a morire prima ancora di arrivare alla fine dei propri giorni: la bellezza paesaggistica è infatti nient'altro che vitalità, in quanto la natura si mostra viva allo sguardo, e una tale vitalità si trasmette agli uomini che in essa e al fianco di essa trascorrono la propria esistenza.
Ciò significa, ad esempio, lasciare ampi spazi naturali all'interno delle città (giardini, parchi, eccetera), costruire fabbricati che siano meno invadenti, usare materiali non inquinanti e, in generale, prendersi cura del mondo in cui si vive, facendo in modo che sia la natura a prevalere e non invece l'artificio umano. E in ultimo, che proliferino i monumenti, giacché essi soltanto, creazioni dello spirito aventi come fine, appunto, la bellezza, riproducono il bello e lo offrono agli occhi degli uomini.
  

Estetica ...


Dissertazione sul concetto di bellezza


Definisco la bellezza una sensazione di piacere associata a un oggetto percepito delineantesi come sua matrice: più precisamente, si dice bella qualunque cosa colpisca in positivo la nostra percezione allietando il corpo e la mente, quale che sia la causa o il motivo per cui ciò si verifica. Il piacere esperito può essere quindi di tipo fisico e sensuale - si dia il caso di gesti singoli come una carezza, un abbraccio, un bacio, e dell'orgasmo considerato in sé -, di tipo psichico e spirituale - ad esempio nel caso della contemplazione di un bel dipinto, di una bella statua, di un bell'edificio -, oppure tutte e due le cose assieme - è il caso, principalmente, dell'amplesso considerato in genere, quale unione con la persona amata e non con una persona qualsiasi. Da questa definizione si deduce il carattere soggettivo della bellezza, ovvero il suo presentarsi o non presentarsi relativamente all'oggetto percepito e soprattutto al gusto della persona percipiente. 
Eppure può essere individuata una bellezza di stampo oggettivo, dunque assoluta, cioè una bellezza che si presenta sempre e comunque come tale indipendentemente dai fattori suddetti: sto parlando di quella bellezza che ha come origine la Natura e non invece l'artificio, a meno che non sia un artificio imitante la Natura. Tra le cose che hanno potenzialità di far sorgere il piacere vi sono infatti cose naturali, prodottesi spontaneamente, e cose artificiali, che sono opera dell'uomo (vi sarebbero, in effetti, anche cose intermedie, prodotte spontaneamente ma per opera degli animali, i quali partecipano non soltanto dell'istinto inconsapevole e inintenzionale, ossia in definitiva della Natura, ma anche di una certa misura di intenzionalità cosciente e di ragione, che costituisce la base dell'artificio). Ebbene, si può dire che l'ambito umano sia l'ambito della soggettività e della relatività, mentre l'ambito naturale sia quello in cui emergono l'oggettività e l'assolutezza; lo dimostra il fatto che chiunque si trovi dinanzi a un paesaggio, sia esso marino o montano, desertico o innevato, o altro ancora, e similmente chiunque si trovi dinanzi a un elemento, terra, acqua, aria, fuoco o fulmine, e così via dicendo, non può che essere preso da piacevole incanto. 
La Natura insomma affascina tutti gli uomini e perciò è bella essenzialmente, e ciò significa inoltre che l'uomo può creare qualcosa di bello solamente facendo ricorso alla propria naturalità interiore, alle proprie pulsioni e ai propri desideri più autentici, all'ispirazione e all'intuizione, oppure avendo il mondo naturale come paradigma e modello di riferimento della propria attività creatrice.

Eidos ...


(Forma metrica: senario sciolto)


Bellezza raggiante


Piacere mi dai
e gioia leggera
quando in una opera
di mano mortale
o immortale, sorgi
per gli occhi degli uomini
che sanno vederti;
non per quelli ciechi
gli iridi incolori
né per menti stanche
cui la pura idea
incessante sfugge;
eppure ti mostri
ovunque, divino
sigillo, impresso
sulle cose autentiche
a rammentar noi
che sia verità. 
Bellezza raggiante
astro luminoso
luce al nostro animo
smarrito concedi
più che mai benigna
come Sole, aureo
celeste regalo:
ora io ti prego
non porre mai fine
al tuo dare, 'ché
il vivo non venga
infine a morire
di disperazione
e di inedia orribile;
'ché amara bruttezza
non pervada il mondo
così tramutandolo
in sudicio avanzo
e turpe immondizia.

domenica 7 aprile 2013

Terrore ...


Terrorismo e conflitti del nostro tempo


L'antagonismo tra Occidente e Medio Oriente ha come prodotto principale quella forma estrema di azione che è il terrorismo islamico. Nato come reazione locale, di stampo prettamente nazionalistico, all'invasione sovietica dell'Afghanistan, il fenomeno delle organizzazioni terroristiche, in principio appoggiate e sostenute dallo stesso Occidente in funzione, appunto, anti-sovietica - era infatti in atto la cosiddetta guerra fredda tra le due super-potenze U.S.A. e U.R.S.S. - si è sempre più ampliato fino ad assumere carattere internazionale. Il culmine di questo processo furono gli attentati terroristici che investirono le Torri Gemelle di New York e il Pentagono nel 2001, i quali delinearono definitivamente il terrorismo come lotta globale. Con la caduta della Russia comunista dunque non sono cessate le operazioni dei gruppi fondamentalisti: perché questo? La risposta è sotto agli occhi di ognuno: non sono mai cessate le politiche neo-colonialiste miranti al dominio dei territori tra Europa e Asia, bensì semplicemente si è avuto una sorta di passaggio di consegne in favore della NATO, che trovò, a un certo momento, spianata la strada agli interventi militari nella regione, frutto di evidenti interessi economici e strategici (sebbene mascherati da libertarismo e umanitarismo). La prima guerra del Golfo, che fu anche in assoluto la prima guerra mediatica, si pone come evento paradigmatico in tal senso.
Il terrorismo è dunque essenzialmente un movimento radicale di resistenza, un movimento partigiano macchiato di odio nei confronti dei paesi occidentali e filo-occidentali colpevoli, con le loro continue e deleterie ingerenze, di tenere un atteggiamento invadente e oppressivo nei confronti delle popolazioni musulmane; pertanto, un movimento politico innanzitutto e solo in secondo luogo un movimento religioso. L'esperienza e la storia mostrano come l'influenza straniera in quei luoghi non abbia fatto altro che portare guerra, disordine e povertà impedendo qualsiasi tentativo di sviluppo; è qui e non altrove che il fondamentalismo islamico ha la sua matrice. Occorre quindi invertire il consueto rapporto di causa ed effetto nella percezione che ordinariamente abbiamo del problema: non è il fondamentalismo a sorgere dal nulla e a costringere l'Occidente ad agire contro di esso con violenza, quanto piuttosto l'azione violenta e illegittima dell'Occidente a generare e nutrire il fondamentalismo, nonché a giustificarlo nella sua azione distruttiva. Solo nel momento in cui gli Stati cristiani (e, non si dimentichi, lo Stato ebraico, con la sua politica di aggressione ai danni dei palestinesi) si pongono di fatto come nemici dell'Islam, agendo come tali, gli islamici cominciano a considerarli "infedeli"; solo nel momento in cui quelli iniziano a inneggiare alla guerra giusta, ponendo in atto le loro "missioni di pace", questi in risposta, e a difesa della propria integrità di popolo - non a caso un altro termine che li definisce è quello di integralisti - proclamano la guerra santa. Se ciò è vero allora l'unica soluzione al terrorismo non può che essere la totale e immediata cessazione di ogni ostilità verso i paesi musulmani, e la fine dell'intromissione straniera all'interno delle loro questioni, dimodoché le tendenze estremiste in breve tempo finirebbero per perdere interamente il consenso che ora possiedono, in quanto il fondamentalismo non avrebbe più alcun motivo per sussistere.

Spontaneità ...


Significato dell'agire e del non-agire


Vi è l'agire e vi è il non-agire. Agire è compiere un atto, ma non-agire non è restare inattivi.  
Nel momento in cui l'uomo agisce, egli non fa che irrompere all'interno di una situazione che prima non lo riguardava essendo a lui esterna, o lo riguardava solo passivamente, e così modificarla e piegarla al proprio volere: si ha qui una forzatura del tessuto mondano ed esistenziale, e perciò tale operare si mostra come un operare artificioso, propriamente d'opposizione rispetto agli enti e agli esseri. 
Colui che invece non-agisce non si rinchiude nell'immobilità: non-agire è in definitiva un agire senza agire, un influire sulle situazioni senza però a esse fare violenza, un evitare di volgere gli avvenimenti a proprio favore in maniera coatta. L'uomo che agisce senza agire accompagna le circostanze nel loro cammino e non per questo rimane inerte, giacché egli si muove seguendo il corso naturale delle cose, perfettamente inserito nel proprio contesto di vita.
La pratica del non-agire è un abbandonarsi, un lasciarsi andare pienamente al flusso degli eventi. Questo sciogliersi e fluidificarsi, questo sradicarsi e allentare le redini presuppongono una completa accettazione di ciò che è così come esso è, e quindi un'affermazione radicale di tutto quel che accade. Codesto atteggiamento non è adottato solamente nei confronti del mondo fuoristante, bensì anche e soprattutto nei confronti del mondo interiore: non-agire significa agire esclusivamente in conformità alla propria natura, ovvero agire spontaneamente, e solo in tal caso l'azione risulterà essere tanto leggera, tanto lieve da sembrare che nessuna azione sia stata in realtà compiuta. Non-agire è pertanto agire con naturalezza, e al contempo agire in accordo agli enti e agli esseri e al loro andamento. 

Si può allora affermare che l'agire è il comportamento proprio di chi lotta contro sé stesso e di chi lotta contro il mondo, e il non-agire, viceversa, il comportamento proprio di chi è in pace con sé stesso e con il mondo; il primo si presenta pertanto come la vocazione degli infelici, mentre il secondo, piuttosto, come il destino dei felici. 
 

Abbandono ...


(Forma metrica: ode anacreontica)


Wu wei


La pietra trasportata
dal fluire dell'acque
fiumane, allor giacque
immobile quel dì

quando morta la vidi;
ed ora corre invece
'ché viva essa si fece
cadendo giù di lì.

Era infatti sui monti
ma giunta è ormai alla foce
del mare, 'sì veloce
la meta conseguì!

In egual modo l'uomo
agir può non agendo
 sincero proferendo
all'Essere il suo sì.


venerdì 8 marzo 2013

Zeitgeist ...


Struttura e origini psicologiche dei cospirazionismi


La politica è un'attività razionale, che pertanto va pensata come tale, pena il suo totale fraintendimento; eppure la nostra epoca vede imporsi in maniera preoccupante la fantasia sopra alla ragione nel modo di pensare politico comune. Effetto di un tale prevalere è la proliferazione delle più varie e illogiche teorie complottistiche tra le moltitudini, teorie il cui luogo di nascita e diffusione sta nella rete, la quale ben si presta, in quanto luogo libero, a ospitare notizie di siffatto genere, prive di fonti o aventi fonti inattendibili. Dalle assurde ricostruzioni alternative dei fatti riguardo a eventi capitali del nostro tempo come l'attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001, alle bizzarre elucubrazioni sul signoraggio bancario e il funzionamento dell'economia mondiale; dalle presunte scie chimiche che costellerebbero i cieli al fantomatico progetto H.A.A.R.P. di marca statunitense; dai chip sottocutanei al sionismo mondiale, fino alle improbabili ipotesi su UFO e forme di vita aliene, lo schema permane sempre identico: partendo da elementi reali si afferma una tesi che è palesemente frutto di invenzione, in quanto inverosimile e priva di riscontri oggettivi; dopodiché la si "dimostra" attraverso argomentazioni pseudo-scientifiche, nonché attraverso testimonianze, foto e video intenzionalmente contraffatti per far destare un certo tipo di impressioni nei fruitori e persuadere le loro coscienze a prestar fede a determinate idee; infine codesta informazione falsificata viene venduta o divulgata gratuitamente, oppure divulgata gratuitamente per poi essere venduta. Dal punto di vista dei contenuti si hanno invece, da un lato, uno o più nemici, crudeli burattinai concentranti nelle proprie mani il potere e le sorti del mondo, dall'altro, gli uomini-burattini inconsapevolmente oppressi da quel potere; da un lato la verità tenuta segreta a scopi meschini di dominio e ricchezza, dall'altro la menzogna e l'illusione in cui le masse sarebbero mantenute in funzione del controllo che deve essere su di loro esercitato dall'alto. Il bene e il male dunque, nettamente distinti e definiti, come nelle più classiche narrazioni infantili. 
Superfluo è sottolineare la superficialità e banalità di cotali interpretazioni, la stupidità e la malafede che si nascondono dietro di esse, gli effetti nocivi e diseducativi della visione del mondo che propugnano con forza. Più utile è mostrare il perché tutte queste teorie del complotto vengano così facilmente credute, acriticamente accolte nonostante la loro evidente infondatezza. Al di là delle sempre presenti motivazioni economiche scovabili dietro alla loro nascita, si celano ben più forti motivazioni di carattere psicologico che ne chiariscono anche la diffusione: ogni uomo ama fantasticare di altre realtà per dar sfogo ai propri desideri, che si delineano in questo caso come desideri di conoscenza di contro a una condizione di ignoranza, e come desideri di sicurezza a fronte di un'esistenza precaria e incerta; da qui alla fiducia accordata a visioni che promettono di colmare codeste lacune il passo è breve. I complottismi infatti spiegano con semplicità alcuni fenomeni complessi del mondo e così donano agli uomini una sorta di strumento di difesa contro le vicissitudini del caso (seppure poi quelle spiegazioni si rivelano false e quegli strumenti fittizi). Vi è anche una indubbia componente d'odio nei confronti dei governanti, ai quali sono attribuite le colpe della propria infelicità e insoddisfazione, e della propria miseria e povertà, ma più in generale si può individuare alla base un desiderio narcisistico di potenza, che finisce per riempire l'animo di vanità: il complottista è convinto di aver svelato un inganno, e da quel momento si percepisce come un privilegiato rispetto agli altri suoi simili, uno dei pochi uomini svegli in un mondo popolato di dormienti. Questa presunzione offre in definitiva un piacevole appagamento, che deriva dalla certezza immaginaria di essere fuoriusciti, per mezzo della propria intelligenza, da uno stato di impotenza e di minorità.      

Visione ...


Diversificazione delle facoltà di immaginazione e fantasia


Corre una sostanziale differenza tra le facoltà umane dell'immaginazione e della fantasia, spesso confuse in un'unica e medesima facoltà. 
L'immaginazione è la capacità che la mente ha di partorire immagini, ossia rappresentazioni di oggetti e scene virtuali, sulla base delle impressioni sensibili di oggetti e scene reali ritenuti nella memoria; non si ha, in questo processo, una mera imitazione di ciò che è, quanto piuttosto una vera e propria riproduzione dell'essere, e inoltre un'attività creativa in grado di generare nuove e alternative realtà (si tratta chiaramente di realtà soggettive, che da un punto di vista oggettivo si mostrano invece come irreali). Prodotti tipici dell'immaginare sono i cosiddetti "sogni ad occhi aperti" e, a un grado più alto, le produzioni spirituali dell'Arte. 
A partire da codesta capacità mentale sorge una seconda facoltà, cioè la fantasia. La fantasia è un derivato dell'immaginazione, un'immaginazione di gran lunga più radicale, portata alle estreme conseguenze. Gli oggetti e le scene prodotti da quella avevano infatti ancora il carattere della verosimiglianza, carattere dato dal fatto che i materiali usati per la composizione delle immagini si presentavano pur sempre come cose reali, aventi un'esistenza fisica e percepibile; ora invece la fantasia si libera di ogni legame con la realtà fisica e con la percezione sensibile, producendo oggetti e scene del tutto irreali e soprattutto inverosimili, oggetti e scene che non esistono né possono esistere in alcun modo. Si è nell'ambito della virtualità pura, laddove i materiali usati e combinati assieme sono non più le cose, bensì le immagini stesse che provengono dalle cose, a un livello dunque più elevato del precedente. I prodotti tipici del fantasticare risultano qui essere i sogni notturni e le produzioni spirituali della Religione, la quale appunto procede da quella forma d'Arte assoluta che è il mito. 
Pertanto, immaginazione e fantasia esprimono il falso, che sia un falso mascherato da vero oppure un falso palese. Qual è allora la funzione e il senso di queste due attività, e per quale motivo da esse l'umanità trae godimento? La risposta sta nella natura più profonda dell'uomo. Da quando nasce sino a quando muore l'essere umano mira a una cosa soltanto, e tutte le sue facoltà concorrono, ciascuna nel modo che più gli è proprio, ad assecondare tale mira: appagare il desiderio. L'atto immaginativo e l'atto fantasticativo non sono altro che soddisfacimenti diretti del desiderio in genere, qualsiasi forma esso si trovi ad assumere, e precisamente l'atto immaginativo non fa che donare appagamento ai desideri più superficiali, limitati e terreni, mentre l'atto fantasticativo appaga quelli più profondi, illimitati e ultraterreni.

Virtualità ...


(Forma metrica: ottava rima)


Potenza della fantasia (l'Idolo e il Simbolo)


Non ascoltare, uomo, la ragione
che cieca analizza e divide e calcola
e pallida fruttando arida azione
a smacchi e ferite incessante pungola;
piuttosto udienza all'immaginazione
concedi e fa' di te stabile isola
su di un oceano sordido e irrequieto:
che sia lindo paradiso, e lieto.

Poi giungi oltre: forme miracolose
t'attendono al varco lontano, strane
come invenzioni geniali e ingegnose
figure satolle di forza immane
in grado di destar lotte animose;
infatti dal grembo d'esse, mai vane
non può che sorgere ricco pensiero
che ora ghermisce giocondo il mistero

di messaggi sacri, e annunciazioni
con indosso vesti d'idolo o simbolo
a edificar fantastiche visioni
e dividere o unire in ricettacolo
l'umanità tutta; le sue tensioni
in cotale variopinto spettacolo
acuite saranno oppure sanate
dal volere delle anime iniziate.

venerdì 15 febbraio 2013

Deriva ...


Progetto politico su diritto allo studio, diritto al lavoro e speculazione finanziaria


Il diritto allo studio e il diritto al lavoro sono le più grandi conquiste giuridiche della nostra epoca. Assicurare lo studio e il lavoro significa far sì che lo Stato garantisca per legge la loro possibilità, non semplicemente come libertà di, bensì inoltre come dovere di. A ogni diritto infatti corrispondono parimenti una libertà e un dovere del medesimo tipo: la libertà di svolgere determinate attività della mente e della mano in funzione della realizzazione dei propri desideri, la libertà di scegliere tra varie opzioni possibili riguardo a come indirizzare la propria vita a piacimento, non può che essere controbilanciata da un dovere o obbligo di impegnarsi in codeste attività teoretiche e pratiche per il bene della collettività, entro limiti stabiliti; così soltanto possono coniugarsi l'interesse individuale e quello generale. Ciò vuol dire allora che l'analfabetismo e la disoccupazione risultano essere, oltre che piaghe sociali, fenomeni illegali e anticostituzionali, da sopprimere in quanto tali attraverso una politica adeguata (se si crede che questo sia impossibile totalmente in una società dalla popolazione numerosa, si convenga però sul fatto che è certamente possibile in misura quasi totale, e numerosi Stati del mondo stanno lì a dimostrarlo. Portare la percentuale di analfabetizzazione vicino allo 0% e quella di disoccupazione vicino all'1 o al 2% dovrebbe essere, beninteso, l'obiettivo di qualsiasi governo).
Posto ciò, occorre altresì operare una distinzione tra due categorie di attività: da un lato l'attività che ha come fine il mero profitto personale, senza riguardo alle esigenze del corpo sociale o addirittura ponendosi in contrasto con esse; dall'altro l'attività che ha come fine proprio l'utilità sociale, e che fa della garanzia di un sostentamento economico il mezzo per raggiungere tale fine. Il senso della pratica lavorativa si incarna evidentemente in quest'ultima categoria, giacché è logico che non è possibile umanità né civiltà alcuna senza uno Stato che doni ad ognuno i beni e i servizi essenziali all'esistenza associata, sopperendo ai bisogni fondamentali. Secondo quest'ottica tutti quegli insegnamenti e mestieri che non fossero in qualche modo, dunque direttamente o indirettamente, portatori di un vantaggio, non necessariamente economico e materiale, ma anche culturale e spirituale, dovrebbero essere proibiti e impediti. Eppure accade che, nel contesto occidentale e non solo, vi siano mestieri, e relativi insegnamenti, legati a una pratica che nel migliore dei casi si delinea come a-sociale, cioè socialmente indifferente, e nel peggiore dei casi come anti-sociale, cioè socialmente deleteria: questa pratica è la speculazione finanziaria - sia essa speculazione al rialzo oppure al ribasso, al coperto oppure allo scoperto - la quale domina in lungo e in largo le economie capitalistiche odierne più che quelle passate. Non si contano le bolle speculative, le perdite di capitali, le sottrazioni di ricchezza causate dall'esercizio di codesta attività manifestantesi, pare, esclusivamente in forme nocive per la collettività, a vantaggio di pochi individui e raggruppamenti di individui. Minando la comunità in quella che è la sue base (la collaborazione degli uomini in vista di un bene maggiore) e minacciando la stabilità finanziaria degli Stati, la pratica della speculazione va innanzitutto regolamentata in modo da risolverne le incongruenze più eclatanti e arginarne le conseguenze più estreme - ad esempio per quanto concerne il mercato degli strumenti derivati - e infine abolita del tutto in un processo che sia graduale ma nondimeno inesorabile.

Faber ...


Considerazioni filosofiche attorno al lavoro in genere


Il lavoro è la realizzazione delle possibilità dell'uomo, potenza umana estrinsecantesi in atto. Ogni uomo infatti è per natura e da Natura dotato di energia intrinseca che si manifesta all'esterno come forza, e precisamente come forza appropriatrice e creatrice, ovvero assorbimento di qualcosa e produzione - nonché riproduzione - di qualcosa mediante una determinata attività. 
Vi sono esclusivamente due forme del lavoro: il lavoro astratto e il lavoro concreto, il primo di norma denominato "studio" e il secondo solitamente chiamato "lavoro" in senso stretto. Il lavoro astratto si delinea come un lavoro di appropriazione innanzitutto, quindi di creazione di oggetti virtuali: i suoi prodotti sono prodotti puramente spirituali e interiori; il lavoro concreto si delinea invece fondamentalmente come un lavoro di creazione, quindi di appropriazione di nozioni e conoscenze specifiche (sebbene questo stadio spesso, ma non sempre, preceda l'altro): i suoi prodotti possiedono in tutti i casi una materialità tangibile. Le forme infantili dell'astrazione e della concrezione si possono individuare rispettivamente nelle attività dell'osservazione e del gioco, le quali si presentano pertanto come propedeutici allo studio e al lavoro adulti.
Nel lavoro in senso pieno si incarnano il piacere e il dovere; ciò introduce un'ulteriore classificazione, che si sovrappone alla precedente, in lavoro libero e lavoro coatto. Il lavoro libero è quello in cui si esprime la propria volontà, e cioè quel lavoro che deriva da una scelta intenzionale. Il lavoro coatto è al contrario un lavoro che si oppone a quello che è il proprio volere, cioè un lavoro che è svolto a seguito di una costrizione esteriore, sia essa una volontà altrui oppure una necessità circostanziale. Come risulta evidente, solamente il lavoro libero si accompagna a una sensazione di piacere, mentre invece il lavoro coatto, essendo esercitato in virtù di un obbligo morale, legale o di altro tipo, è frutto di dovere. Il dovere è l'elemento caratterizzante di qualsiasi attività lavorativa, ma non sempre l'attività lavorativa si lega al piacere (nell'osservazione e nel gioco il dovere non ha alcun ruolo, e proprio perciò codeste due attività non possono ancora essere considerate come studio e come lavoro): vi è piacere nel momento in cui il lavoro corrisponde alla volontà, e dunque la volontà al dovere; in tal caso dovere e piacere divengono uno, in quello che può esser detto un dovere piacevole o un piacere dovuto.
La gran parte dell'esistenza umana si mostra in definitiva come attività, opposta alla passività del sonno e della morte: vita e lavoro coincidono allora quasi interamente, e non a caso l'inattività genera nell'animo gli affetti della noia e della tristezza. Il lavoro umano è lavoro vivo. Di conseguenza una vita felice non può che presupporre il lavoro; un lavoro che sia non semplicemente un fare appropriativo e creativo, ma anche e soprattutto un fare ricreativo e appagante, ossia un fare che avveri la virtualità dei desideri e lasci emergere da sé il piacere. 

Vocazione ...


(Forma metrica: lushi)


Pensando al lavoro


Ara il contadino il suo campo di terra
e di esso ora raccoglie i frutti squisiti;
getta le reti il pescatore ansioso d'afferrare
i pesci grandi e minuti del mare smisurato;
là sopra i monti il pastore alleva le greggi
e il cacciatore uccide selvaggina nella foresta a valle:
ognuno è vincolato al proprio dovere
da lacci invisibili stretti a provocare piaghe.

Munito di accetta abbatte gli alberi il falegname
pronto a fabbricare mobili raffinati e signorili;
il medico in camice visita l'un dopo l'altro i pazienti
in apprensione nella sala d'attesa, egli li attende severo;
il libraio maneggia opere d'antica mano
e le ripone su scaffali polverosi, intrise di spirito;
così tutti quanti gli uomini, poveri o ricchi
esercitano il bel mestiere a cui sono destinati.

Al principio la mente e la mano, e una volontà vigorosa
mescolano l'anima e il corpo, il sacro e il profano:
è l'Amore a operare e a dare la vita
il Cielo a partorire Amore dalle proprie viscere.
Orsù, insieme festeggiamo l'avvento del lavoro
e benediciamo l'atto sublime mentre lo attuiamo;
ma brinda al piacere il saggio, e alla libera scelta
non brinda alle catene che imprigionano la Natura.

giovedì 3 gennaio 2013

Medium ...


Potere mediatico e inganno di massa


I mezzi di comunicazione - e quindi anche di educazione - di massa, o media, si rivelano strumenti di Potere quando falsificano la verità dei fatti tramutandola in menzogna. Ciò avviene soprattutto nel caso delle principali fonti di informazione popolari occidentali quali la televisione e i giornali (la rete infatti, pur con le sue potenzialità di luogo libero e gratuito accessibile a chiunque, non è usata, se non in una minoranza di casi, in codesto senso informativo, ed anche quando sia usata non lo è, perlopiù, con le dovute precauzioni), attraverso una propaganda serrata che mira ad instillare nelle coscienze degli individui determinate idee e giudizi, sostenuti da immagini e video mostranti una realtà appositamente plasmata e mistificata, in modo da procurare tra le moltitudini il più vasto consenso possibile alle decisioni e azioni del Potere. Occorre analizzare i modi di questa falsificazione.
Va detto innanzitutto che il Potere, e con tale termine si intende coloro che incarnano la possibilità di decisione e azione, ovverosia l'insieme dei potenti, possiede sempre un nemico che contrasta i suoi piani, che ostacola i suoi progetti, che si oppone volontariamente o meno ai suoi desideri; è proprio contro il nemico, interno od esterno, che egli indirizza, dall'alto, il suo operare. Ma per farlo, nell'epoca dell'opinione pubblica e della democrazia, ha bisogno di sostegno dal basso, cosicché sia legittimato nei principi e giustificato negli esiti, e pertanto mediante il controllo diretto o indiretto, forzoso o ideologico dei mezzi di comunicazione edifica una elaborata macchina sociale, con la quale impone la propria influenza sulle menti e sui corpi degli uomini: il primo passo è allora l'identificazione del nemico.
In secondo luogo quello che è il nemico del Potere deve tramutarsi in nemico dei cittadini, e quindi in minaccia vicina e concreta per loro. Per far sorgere una minaccia del genere si pongono in causa gli idoli culturali che risultano essere più sentiti, vista la loro importanza, negli animi dei singoli; è paradigmatico, ad esempio, il caso della libertà, laddove il nemico viene accusato di sopprimere o di voler sopprimere le libertà fondamentali, oppure il caso dell'umanità, laddove invece egli viene accusato di perpetrare stragi, delitti sanguinari e crudeltà insensate: il nemico interno diviene quindi un criminale e un delinquente, il nemico esterno un dittatore e un terrorista. Questo è lo stadio della demonizzazione del nemico. 
Nel momento in cui la minaccia è divenuta vicina e concreta, al Potere non resta altro da fare che vestirsi dell'abito di eroe e salvatore degli idoli minacciati. L'azione contro il nemico diviene una faccenda umanitaria, un dovere morale e civile assieme, un obbligo richiesto a gran voce dalla maggioranza. Gli scopi appaiono come i più nobili ed altruistici e, quand'anche l'egoismo di fondo emerga, la necessità dell'intervento vince sul buon senso e su qualsiasi altra considerazione. Si ha finalmente il via libera alla lotta poliziesca contro la criminalità organizzata e la delinquenza comune, e alla lotta militare contro la dittatura e il terrorismo; alla repressione e alla guerra giusta, rispettivamente in vista dell'ordine e dell'esportazione della democrazia; alla restaurazione della legalità nazionale e internazionale. L'operazione contro il nemico viene messa in atto.
A questo punto al Potere interessa sostenere la propria maschera per un periodo che sia il più lungo possibile. Il secondo stadio del processo viene reiterato nel tempo per rinnovare il consenso e mantenerlo su livelli accettabili, così da non rischiare di dover interrompere le operazioni prima del raggiungimento dei fini prefissati. La ripetizione dell'illusione mediatica conclude la strategia.
Una volta compiuta la strategia non si ha più motivo di conservare la menzogna agli occhi delle masse, e così la verità si erige lentamente verso la superficie, facendosi sempre più chiara. La consapevolezza di esser stati manipolati non sempre viene alla luce e non sempre è accettata; ha comunque una durata molto breve: si prova infatti, in questo caso, un senso di irritazione e di impotenza che svanisce in un lasso di tempo più o meno limitato, quasi che si voglia, il più in fretta possibile, cancellare dalla memoria l'accaduto in un meccanismo psichico di autodifesa. Il Potere non fa che incoraggiare tale andamento, eliminando ogni residuo e riferimento mediatici all'evento in questione, sostituendo questi residui e riferimenti con differenti argomenti e tematiche, e tenendo occupati i cervelli nell'elaborazione di problematiche altre. Il risultato è qui l'oblio del passato recente, dimodoché le moltitudini divengono nuovamente pronte ad essere ingannate. 

Apologia ...


Lineamenti della verità in senso scientifico e in senso filosofico


La Filosofia anela alla verità; la verità cui la Filosofia anela non è però una verità scientifica. 
La Scienza reputa vera un'asserzione o un insieme di asserzioni esclusivamente quando li dimostra sperimentalmente: a partire dall'osservazione empirica e dalle verità scientifiche già scovate nel passato lo scienziato individua, in maniera induttiva, dei principi o ipotesi primarie, quindi costruisce su di essi una teoria generale strutturata come insieme di ipotesi, deducendo con rigore dalle ipotesi primarie delle conseguenze o ipotesi secondarie e giungendo quindi, in ultimo, ad asserzioni che hanno la forma di previsioni sull'accadere dei fenomeni. A questo punto avviene il processo di verificazione, ovvero di certificazione: il fenomeno viene riprodotto in laboratorio (o osservato in natura), e se accadrà così come era stato previsto dalla teoria, allora essa risulterà verificata e dunque certa, nella misura in cui riuscirà a superare tutti i successivi tentativi di falsificazione che saranno posti in atto contro di lei. La Filosofia non ha nulla a che vedere con una tale tipologia di verità, cioè con la verità come certezza prodotta nell'ambito di un esperimento.
La verità che pertiene al filosofo è la verità come disvelamento: il termine "verità" ha la sua derivazione dal termine latino "veritas", il quale a sua volta è la traduzione del più antico termine greco "aletheia"; aletheia significa letteralmente "non-latenza". Non-latente è ciò che si trova nel nascondimento ma non vi permane, giacché da esso sempre fuoriesce mostrandosi nell'apparenza, dunque spontaneamente svelandosi (e tornando poi di nuovo nel nascondimento originario in un movimento continuo e infinito). Ciò che si svela da sé è necessariamente vero e non può non esserlo: è Natura. La Natura come totalità comprensiva e unitaria, che comprende parimenti il tutto mondano e il tutto umano, è appunto l'oggetto d'indagine del filosofo, mentre l'oggetto d'indagine dello scienziato, ciò che egli desidera conoscere e descrivere, è solamente una parte dell'intero naturale. Il filosofo non descrive il particolare, bensì spiega l'universale; non trova la concatenazione di cause seconde ed effetti, bensì le cause prime; non mira alla visione del "come" dei fenomeni, bensì del loro "perché". La verità che la disciplina filosofica fa propria è una verità incerta e precaria, non possiede quel grado di sicurezza che possiede la verità fatta propria dalla disciplina scientifica. E nondimeno essa è una verità che procede molto più a fondo di quanto non sia in grado di fare l'altra: la verità scientifica rimane in superficie, la verità filosofica, invece, giunge al cuore stesso delle cose.

Fede ...


(Forma metrica: verso libero)


Verità dai sette volti


Verità dai sette volti
canto il tuo corpo multiforme
la varietà
delle curve tue suadenti:
esitar non devo
nello scrutarle e palparle a mio piacimento. 

Per l'uomo comune sei
percezione sensuale;
egli ti vede, ti ode e ti tocca
i tuoi sapori gusta, i tuoi odori annusa.
Ma se anche i suoi sensi
fossero spenti
e cieco e sordo e insensibile
brancolasse 
privo d'appigli
non cesserebbe la volontà sua
di invocarti, come un poppante
piangendo invoca il seno della propria madre
del suo bisogno espressione.

Per l'artista sei
sentimento e passione
fievole ruscello e fiume travolgente
ineludibili, reali; 
dentro di sé egli li sente fluire
e proceder sommergendo insieme corpo e mente.
Il loro scaturire
da sorgente sconosciuta
è mistero sacro
e solenne iniziazione;
egli ascolta parole non pronunciate
di voci sommesse, e grida senza suono
eppur chiare e distinte 
più di qualsivoglia voce o grido:
"io vi credo!" afferma allora con forza inaudita
e nessuno da tal convinzione
ch'è intimo amore del piacere e del dolore
di gioia e sofferenza, di amore e odio
lo smuove.

Per il logico sei
corrispondenza tra termine e cosa: 
ciò che si dice deve anche essere
ciò che è deve riflettere 
ciò che vien detto
e codesto legame 
mai scindersi deve, pena la menzogna.
E così come universale è il linguaggio
- seppur non esista affatto
universale lingua -
universale è anche siffatto vero
accorde e concorde;
tutti gli uomini infatti lo fan proprio
e spontaneamente lo comprendono
e ne fanno uso
come di utensile per ogni occasione.

Per lo scienziato sei
certezza infallibile di legge naturale
da scoprire
sulla macchinosa superficie del mondo:
qui v'è metodica osservanza
e osservazione empirica
e riproduzione, ed esperimento;
il fine è descrizione e conoscenza
di causa ed effetto
e del movimento loro concatenato 
e incatenante.
Sicuro al massimo grado 
egli guarda avanti
e diritto cammina
sin dove può guidarlo
la ragione sua errabonda.

Per il religioso sei
rivelazione ultraterrena
parola divina
irrazionale, e nondimeno
parola in cui aver fede
e in funzione di cui svolgere
la propria vita;
venerazione e fanatismo
provoca suo malgrado la tua assolutezza
necessaria certo, e benefica
ma anche maligna
e al di là del bene e del male mondani
in effetti ti erigi, bene sommo
vestendoti di bianco e di azzurro
colori del cielo.
Ma tu sola tra le altre forme
di senso 
ti mostri donatrice. 

Per il filosofo sei
disvelamento e illatenza
totalità unitaria
e profonda
tesoro che appare e scompare
a colui che pensa
per colui che intelletto coltiva
e fa germogliare.
Non è dalla tua penna
che proviene ciò che egli scrive;
non è col tuo inchiostro
che i segni numerosi 
e le lor combinazioni innumerevoli 
sono incisi su bianco foglio?
Ecco: tu di sapere sei fonte
di sapienza e saggezza inesauribili.

Per il politico sei
concreta idea fondata o infondata
generata da mente feconda
o da significativi uomini trasmessa:
vanno incontro alla morte
per te le masse desideranti;
esercitano il potere
per te i potenti
e tu stai lì, quieta e immobile
 indifferente
e persino falsa, a volte
e così pur senza agire
infine agisci
mantenendo in moto perpetuo
la ruota della Storia.

 Ebbene, Verità
finanche a ingannar l'uomo
giungi 
col tuo operare in ogni luogo
e in ogni tempo
ma tutti gli stomaci nutri
e tutte le bocche bagni
poiché sei cibo e acqua
per lo Spirito affamato e assetato.

lunedì 3 dicembre 2012

Destrudo ...


Violenza collettiva e antidoti statali


Che vi sia un istinto di morte operante a fianco del più evidente istinto di vita, e forse proprio in funzione di questo, è un dato di fatto innegabile, di cui si trovano esempi quantomai numerosi e lampanti nei fenomeni sociali. Che ciò sia un problema politico, di quella politica che non si rifiuta di amministrare la vita collettiva in tutti i suoi aspetti molteplici ed anche in quelli che sembrano non riguardarla da vicino, è cosa che non si deve fare a meno di rimarcare e su cui non si può non insistere, tanto è importante. 
Tra gli accadimenti in cui è celato il desiderio di morte, che si rivolge contro gli altri prima di tutto, ma anche contro sé stessi se nell'atto precedente si è bloccati da una sorta di pudore o timore morale, vanno citati quelli che risultano essere i più eclatanti e che si verificano a livello della vita associata: il bullismo, la violenza negli stadi e la violenza di piazza. In tutti e tre questi fenomeni la morte si esprime come agressività cieca che vuole essere sfogata, e che, se non fosse per le limitazioni concrete che fanno da ostacolo, si risolverebbe addirittura nell'annientamento.
Nel bullismo, manifestazione propriamente giovanile, si ha un raggruppamento di individui che usano la propria forza per soggiogare individui più deboli, senza alcuna motivazione o causa effettiva. L'aggressione, che è psichica e fisica assieme, non avviene per difesa da un pericolo, né per prevenzione a seguito di una minaccia, ma si mostra come sostanzialmente gratuita. Qui, attraverso un avvenimento pretestuoso, si mira semplicemente a estrinsecare una volontà di dominio sottomettendo l'altro al proprio volere fino a danneggiarlo nella sua integrità. Questa dimostrazione di violenza autoritaria finisce per fornire un esempio di vita onorevole sia per i maschi, i quali sogliono imitarla nel desiderio di conquistarsi rispetto e considerazione, sia per le femmine, che sembrano prediligere i tipi del genere nella scelta del partner. Un'educazione siffatta non può che tramutarsi nel culto della forza bruta, il quale, se mantenuto anche in età adulta, si presenta come una minaccia per l'ordine sociale. 
Negli scontri verbali e maneschi che avvengono negli stadi durante i giochi sportivi, tra le tifoserie opposte e tra queste e le forze dell'ordine, si amplia il numero degli individui interessati. Anche in questo caso le motivazioni e le cause si mostrano come dei pretesti irragionevoli per trarre fuori da sé una tensione accumulata. La violenza è indiscriminata, in quanto le distinzioni settarie su cui si applica non hanno nulla di logico; è come se un demone si impossessasse uno ad uno dei componenti della folla portandoli alla follia, in un contagio difficilmente arrestabile e che coinvolge tutte le parti protagoniste. A farne le spese è l'immagine di una nazione, che diviene preda degli altrui giudizi di inciviltà, di fronte al resto del mondo e anche di fronte a sé stessa, ovvero alla propria cittadinanza. 
Negli avvenimenti conflittuali che riguardano le manifestazioni di piazza, ancora tra cittadini di diverse fazioni e tra questi e le forze di polizia, il coinvolgimento della politica è maggiormente visibile; anzi, al contrario delle due forme precedenti questa forma di espressione violenta ha delle motivazioni e delle cause generali ponderate. Eppure, nonostante ciò, e nonostante l'utilità sociale a cui codesto tipo di violenza si piega (su tale affermazione, che la violenza di piazza possieda un'utilità sociale, certamente in molti non saranno d'accordo, ma non sono io, in realtà, a sostenere questa posizione azzardata: è la storia stessa con i suoi eventi, piuttosto, a sostenerla), il solo fatto che vi sia un'esigenza popolare di manifestare il proprio dissenso nei confronti dell'autorità statale è un problema, giacché dimostra la presenza di un'insofferenza diffusa tra le moltitudini soggette al potere. 
Ora, il compito di una politica assennata non è quello di reprimere le espressioni sociali deleterie una volta sorte - così infatti il problema non viene affatto risolto - bensì quello di prevenire il loro prodursi; se ciò non avviene la politica non può essere detta politica sana, perché ne va del mantenimento dell'ordine generale. Alla radice della violenza sconsiderata degli atti di bullismo, degli scontri negli stadi, degli scontri di piazza e di qualsiasi altro avvenimento del genere, sta sempre un malessere interiore del singolo, di stampo prettamente nichilistico, derivato da condizioni sociali disagiate (dallo stato di povertà familiare al vivere in un ambiente malfamato; dall'assenza o disinteresse dei genitori all'influenza delle cattive compagnie, e così via dicendo): se ciò è vero, allora eliminando questo disagio profondo si preverrebbe anche l'insorgere della violenza mortifera. Ma il malessere sociale non può essere eliminato se non in un modo: attraverso l'assistenza statale rivolgentesi a tutti quei casi speciali che, in quanto tali, fuoriescono dalla norma dell'esperienza vissuta ordinaria, in modo da annullarne il potenziale negativo mediante programmi mirati al riempimento delle mancanze economiche, affettive e valoriali.
   

Biologia ...


Discorso sulla natura della vita e fenomenologia della morte


Per poter comprendere la morte occorre innanzitutto comprendere la vita. La morte infatti della vita non è l'opposto, come si suole pensare, bensì la sua estremità finale, così come la nascita ne è l'estremità iniziale: la morte è allora l'opposto della nascita.
Detto questo ci si chiede: "che cos'è la vita?". La vita si mostra come un processo chimico-fisico-psichico che si individua in un gruppo determinato di enti che chiamiamo enti vivi, o esseri viventi. La peculiarità di tali esseri è il fatto di essere in grado di muovere da sé le proprie parti interne ed esterne in vista della conservazione e della crescita. Ma che cos'è che fa sì che essi possano muoversi in tal senso? Quale elemento li distingue dagli enti ordinari inabili alla vita?
Sovente si appellano gli esseri con l'aggettivo "animati" in sostituzione di "viventi". Se "animato" e "vivente" sono sinonimi, allora anche i termini dai quali codesti aggettivi derivano devono essere tali, e dire "anima" è quindi identico a dire "vita". L'identità di anima e vita è presente sin dagli albori del pensiero umano, sia in Occidente sia in Oriente. Coniando il concetto di anima si è appunto voluto dare un nome a quell'elemento misterioso che si suppone renda vivi alcuni tipi di enti e non invece altri. Che un'anima sussista ed esista è cosa certa, altrimenti non vi sarebbe modo di distinguere, ad esempio, un animale da una pietra. L'anima è pertanto la causa della vita in quegli enti che ne possiedono il privilegio, ma bisogna scovare in che modo questa causa agisca a generare il processo chimico-fisico-psichico vivificante.
La differenza tra l'animale e la pietra è che il primo presenta in sé un anima attiva che gli permette di sviluppare il movimento. Dal punto di vista strettamente scientifico qualsiasi tipo di processo motorio, interno od esterno che sia, ha bisogno di un'energia per avere luogo; senza l'apporto energetico necessario nessuno sforzo può darsi, e dunque nessun tipo di moto. L'energia dona la spinta dalla quale si genera ogni lavoro, intendendo quest'ultimo come un muoversi finalizzato a un qualche scopo. Ciò significa che se la vita è movimento interiore ed esteriore, e se l'anima è, agendo, la causa della vita, allora l'energia, che è causa del movimento, è anche causa della vita e coincide con l'anima stessa. Ma se l'anima è energia allora essa non può essere l'elemento di distinzione tra enti inanimati ed esseri viventi, in quanto sappiamo che l'intera materia non è altro che energia condensata in una forma consistente.
Se ciò è vero, se sia gli enti inanimati sia gli esseri viventi possiedono un'anima-energia, la distinzione fondamentale deve essere ricercata altrove, ovverosia nel corpo. La differenza tra un animale e una pietra è infatti che il primo possiede un corpo in grado di sfruttare l'anima-energia presente al suo interno, e procurata dall'esterno mediante la nutrizione, per produrre movimento. Egli fa ciò mediante i suoi organi interni e le sue membra esterne, organi e membra che l'altro non possiede. Organi e membra sono allora gli elementi discriminanti tra ente inanimato ed essere vivente. 

La vita è quindi anima-energia che agisce con l'ausilio delle strutture corporee. Ciascuna vita è legata a un singolo essere e ne condivide la durata; ha un inizio e una fine che si delineano come nascita e morte dell'essere in questione. La nascita è generazione a partire dall'unione di una coppia di altri esseri, specificamente maschio e femmina. La morte è invece decomposizione, anche qui verificantesi, in parte, per mezzo dell'azione di altri esseri viventi (batteri soprattutto), di cui diveniamo nutrimento, e in parte ad opera degli enzimi non più trattenuti nelle cellule, i quali liberandosi innescano una sorta di auto-digestione dei tessuti, disgregandoli. Ma se questa è la sorte del corpo, quale può essere la sorte dell'anima? Tutti gli esseri animali si nutrono esclusivamente di materia solida, ed estraggono energia da questa materia. Gli esseri vegetali, al contrario, sono in grado di sintetizzare da sé il nutrimento materiale a partire dall'energia della luce solare, e dunque non si nutrono di corpi. Nessun essere che si nutra di corpi è capace di procurarsi energia direttamente e di sfruttare l'energia pura. La sorte dell'anima pertanto non coincide con la sorte del corpo. 
L'anima-energia, non essendo corporea, non può decomporsi. Ma se si definisce la morte come decomposizione delle strutture corporee, si giunge alla conclusione che essa non può morire, e risulta essere quindi immortale. La morte però, più precisamente, può essere definita come cessazione delle funzioni vitali a seguito del deterioramento delle strutture corporee, quand'esse siano colpite e irrimediabilmente danneggiate oppure si usurino progressivamente per via dell'uso continuato, rovinandosi da sé, mentre la decomposizione è piuttosto un processo che si verifica in un tempo successivo, a morte già avvenuta: essa è la morte propria della materia non-più-vivente. L'anima, certamente, cessa di agire quando non ha più il supporto materiale adatto alla sua azione; quando cioè gli organi e le membra che le permettevano di far sorgere il movimento vitale non sono più in condizioni di sfruttare l'energia per compiere un qualsiasi lavoro. In questo senso l'anima muore con la morte del corpo, pur senza dissolversi.
Quest'anima che prima fluiva in un corpo e che ora è impossibilitata ad agire non scompare, ma, una volta esaurita, permane nella sua condizione originaria di elemento sostanziale presente in ogni corpo materiale, ed anche al di fuori dei corpi come energia allo stato puro. Essa allora è sempre presente ovunque, e la morte dell'individuo non intacca il suo essere unitario come anima del mondo, né la sua capacità di agire in altri modi al di fuori dei processi chimico-fisico-psichici che sono propri degli esseri viventi.