venerdì 13 giugno 2014
Divenire ...
Speranza di un risveglio politico e religioso dell'umanità
La storia dell'essere è la storia del rapporto e della relazione che
l'uomo instaura con ciò che è e con l'Essere sommo. Sin dai primordi
dell'umanità l'essere umano ha percepito il legame che lo unisce agli
altri uomini e alle cose circostanti, così come la connessione
misteriosa che lo lega al sacro, a quell'inspiegabile e inconoscibile
che sta dietro il mondo. In questo contesto, la politica nasce dalla
percezione del legame inscindibile con gli enti e gli esseri; la
religione dalla percezione della connessione fondamentale con l'elemento
divino. Ma anche la religione, nel suo produrre rapporti e relazioni
dotati di concretezza sociale, si manifesta, in definitiva, come un
fatto essenzialmente politico.
La politica è l'arte del governo di una società che comprende soggetti e
oggetti in reciproco nesso, mediante la costituzione di istituzioni
adeguate capaci di agire negli interessi della collettività. La
religione è l'arte dell'invenzione di un vincolo, in primo luogo mitico,
e in secondo luogo morale, tra una popolazione di credenti e
non-credenti, qui pure attraverso l'azione di opportune istituzioni. Si
hanno dunque due forme di potere, l'una incarnata dallo Stato, l'altra
dalla Chiesa, laddove lo Stato possiede il dominio degli eventi di
Natura - seppure è la Natura in verità a dominare lo Stato in quanto
composto di corpi d'uomini, sottoposti alle leggi naturali -, e la
Chiesa il dominio degli eventi di Dio - sebbene sia Dio in verità a
dominare la Chiesa in quanto composta di spiriti d'uomini, sottoposti
alle leggi divine -, in un esercizio parallelo e complementare.
Politica e religione si mostrano quali le colonne portanti sulle quali
si edifica l'edificio comunitario umano; senza il sostegno di una di
esse l'intero edificio crolla e va in rovina. Perciò, occorre superare
l'avversione che nell'età contemporanea si prova nei confronti di queste
due forme culturali, avversione che ha origine nella dimenticanza
dell'essenza della loro esistenza, del senso della loro presenza tra gli
uomini. Senza di esse non vi sarebbe, infatti, alcuna identità
legislativa né alcuna identità etica sulle quali basare i comportamenti
umani. Ma tale oblio è, al pari, un oblio dell'essenza dell'esistenza,
del senso della presenza degli enti e degli esseri medesimi nel loro più
proprio essere, nonché dell'Essere che li racchiude e conchiude. Se ciò
è vero, solamente tornando a rammemorare e riponendo nella giusta luce
tutto quel che è in quanto è e in quanto dona l'essere, sarà possibile
rivalutare e al contempo far risorgere, vitalizzandolo, l'anelito
politico così come l'altrettanto necessario anelito religioso, per l'avvento di un nuovo Rinascimento.
giovedì 22 maggio 2014
Continente ...
Per un'Europa migliore
L'obiettivo politico più grande del nostro tempo risulta essere, senza
dubbio, la costituzione degli Stati Uniti d'Europa. Schiacciata dal
dominio delle grandi potenze continentali - Stati Uniti, Russia, Cina -
l'Europa ha perduto quella preminenza che possedeva solo un secolo or
sono, prima delle guerre mondiali e del conseguente ridimensionamento a
un ruolo vieppiù di secondo piano nello scacchiere globale. La crisi
economica e politica che l'attanaglia è in verità un effetto di cotale
declino.
Dal punto di vista economico, l'Europa deve unificare le proprie strutture istituzionali attorno alla Banca Centrale Europea. Questa - lungi dall'essere un mero guardiano dell'operato delle banche nazionali e un equilibratore dei livelli di inflazione, com'è attualmente - deve farsi garante della spesa a deficit di tutti gli Stati d'Europa, nessuno escluso, acquistando i loro titoli di debito quando lo richiedano e in maniera diretta, ovvero senza passare attraverso mercati di capitali privati e senza ordinare l'acquisto alle banche commerciali. Così soltanto sarebbe possibile, per tutti i paesi comunitari, da un lato, sfuggire al pericolo del default; dall'altro, avere a disposizione la liquidità necessaria per sostenere le spese e gli investimenti essenziali alla crescita produttiva. Dopodiché (cioè dopo codesti passaggi fondamentali, non prima) si potrà quindi pensare all'esigenza di costituire una unione bancaria e di creare una politica fiscale unitaria.
Ma più importante ancora di queste condizioni è l'instaurarsi di una nuova situazione politica. Il Parlamento europeo, unico organo elettivo tra i tre organi di governo europei (gli altri due sono la Commissione europea e il Consiglio europeo), deve acquisire preminenza rispetto alla Commissione, i cui membri non sono eletti, e che appare popolata da burocrati al servizio di lobbisti a loro volta alla dipendenze dei grandi gruppi finanziari, industriali e bancari d'Europa; e parimenti rispetto al Consiglio, così come in ogni democrazia che si rispetti il governo e i suoi atti sono sottoposti all'approvazione dell'assemblea popolare. Insomma, se oggi il Parlamento risulta di fatto relegato a una funzione quasi esclusivamente consultiva, domani esso dovrà ricevere interamente la funzione legislativa. Infine si dovrà operare una redistribuzione, maggiormente egualitaria, dei seggi e delle cariche, al fine di compensare l'eccesso di potere proprio delle nazioni centrali e la mancanza di influenza propria delle nazioni periferiche.
Nondimeno, il principio cardine - oramai da tempo scardinato - da restaurare in questo quadro di riforme possibili, è la sottomissione dell'ambito economico all'ambito politico. In questa direzione si inserisce il progetto di fondazione di un Ministero del Tesoro europeo, nel contesto di uno Stato sovrano che abbracci e ponga sotto la propria giurisdizione tutti i territori dall'Europa occidentale a quella orientale e da nord a sud del continente, uno Stato, dunque, che con il suo braccio si trovi in grado di piegare l'irruenza e l'irrazionalità dei mercati al proprio volere ragionevole.
Di qui passa il destino di grandezza dell'Unione Europea. In alternativa a tali rivolgimenti sta solamente la disgregazione.
Dal punto di vista economico, l'Europa deve unificare le proprie strutture istituzionali attorno alla Banca Centrale Europea. Questa - lungi dall'essere un mero guardiano dell'operato delle banche nazionali e un equilibratore dei livelli di inflazione, com'è attualmente - deve farsi garante della spesa a deficit di tutti gli Stati d'Europa, nessuno escluso, acquistando i loro titoli di debito quando lo richiedano e in maniera diretta, ovvero senza passare attraverso mercati di capitali privati e senza ordinare l'acquisto alle banche commerciali. Così soltanto sarebbe possibile, per tutti i paesi comunitari, da un lato, sfuggire al pericolo del default; dall'altro, avere a disposizione la liquidità necessaria per sostenere le spese e gli investimenti essenziali alla crescita produttiva. Dopodiché (cioè dopo codesti passaggi fondamentali, non prima) si potrà quindi pensare all'esigenza di costituire una unione bancaria e di creare una politica fiscale unitaria.
Ma più importante ancora di queste condizioni è l'instaurarsi di una nuova situazione politica. Il Parlamento europeo, unico organo elettivo tra i tre organi di governo europei (gli altri due sono la Commissione europea e il Consiglio europeo), deve acquisire preminenza rispetto alla Commissione, i cui membri non sono eletti, e che appare popolata da burocrati al servizio di lobbisti a loro volta alla dipendenze dei grandi gruppi finanziari, industriali e bancari d'Europa; e parimenti rispetto al Consiglio, così come in ogni democrazia che si rispetti il governo e i suoi atti sono sottoposti all'approvazione dell'assemblea popolare. Insomma, se oggi il Parlamento risulta di fatto relegato a una funzione quasi esclusivamente consultiva, domani esso dovrà ricevere interamente la funzione legislativa. Infine si dovrà operare una redistribuzione, maggiormente egualitaria, dei seggi e delle cariche, al fine di compensare l'eccesso di potere proprio delle nazioni centrali e la mancanza di influenza propria delle nazioni periferiche.
Nondimeno, il principio cardine - oramai da tempo scardinato - da restaurare in questo quadro di riforme possibili, è la sottomissione dell'ambito economico all'ambito politico. In questa direzione si inserisce il progetto di fondazione di un Ministero del Tesoro europeo, nel contesto di uno Stato sovrano che abbracci e ponga sotto la propria giurisdizione tutti i territori dall'Europa occidentale a quella orientale e da nord a sud del continente, uno Stato, dunque, che con il suo braccio si trovi in grado di piegare l'irruenza e l'irrazionalità dei mercati al proprio volere ragionevole.
Di qui passa il destino di grandezza dell'Unione Europea. In alternativa a tali rivolgimenti sta solamente la disgregazione.
martedì 15 aprile 2014
Cura ...
Estremismo della compassione. Idee radicali e attuazioni per una pietà politica
I sentimenti umani possiedono un ruolo sociale. Se i sentimenti negativi
(odio, invidia, gelosia, eccetera) contribuiscono a rompere i legami
tra le persone e a far emergere fra di loro il contrasto, i sentimenti
positivi (amore, ammirazione, fiducia, eccetera), al contrario, non
fanno che sancire quei legami personali e destare concordia. Essendo la
concordia il fondamento di ogni società, lo Stato ha il dovere di
favorire quei sentimenti che sigillano l'unione e l'ordine e, viceversa,
di osteggiare quelli che possono provocare un principio di
disgregazione e di disordine nel tessuto comunitario.
La compassione risulta essere, a questo riguardo, uno dei maggiori e più
benefici sentimenti positivi, di contro all'apatia quale sentimento
negativo tra i peggiori e più deleteri. Essa, generando sovente degli
atti di pietà, fa sì che si producano e mantengano l'equilibrio e
l'armonia tra i cittadini, quell'equilibrio e quell'armonia che
incarnano il bene di una nazione. Pertanto, una politica sana non potrà
che essere una politica compassionevole - giacché è il governo, in primo
luogo, a dover dare l'esempio ai governati -, ovverosia una politica
assistenziale rivolta alle minoranze emarginate e alle classi disagiate,
e cioè agli strati della popolazione che più di tutti avvertono la
necessità di un concreto soccorso statale. In tal senso, sarebbe utile e
conveniente inserire, ad esempio, all'interno delle legislazioni
nazionali una elemosina obbligatoria al fianco di quella facoltativa,
sul modello dei paesi islamici.
Certamente, è merito delle religioni, e soprattutto di quelle religioni
che sulla compassione fondano l'intera loro dottrina pratica, quali il
Cristianesimo e il Buddismo, l'aver introdotto nella civiltà e radicato
nelle coscienze morali la pietà verso i miseri - siano essi i poveri,
gli oppressi o in generale i disgraziati - la quale prima era
prerogativa esclusiva dei soli eroi magnanimi e dei grandi uomini
nobili; in breve, la preoccupazione per le vittime. Ma quel che ancora
non è stato raggiunto è un traguardo di gran lunga più difficile, un
azzardo che renderebbe la comunità che lo attuasse la più avanzata tra
le numerose comunità presenti nel mondo, la più perfetta dal punto di
vista etico. Codesto traguardo si delinea come preoccupazione nei
confronti dei carnefici, pietà verso coloro che fanno il male (essi
pure, in verità, nient'altro che dei miseri), compassione piena e
completa che include l'umanità infelice tutta. Lo Stato che arrivasse a
comprendere il giovamento che deriverebbe da ciò sarebbe allora il più
lungimirante, la società da lui governata la più equilibrata ed
armonica, i cittadini a lui sottoposti i migliori in assoluto nella loro
virtù.
lunedì 10 marzo 2014
Progresso ...
Tradizione e innovazione
Nell'epoca della globalizzazione l'ideale di famiglia tradizionale deve
essere rivisto alla luce delle nuove dinamiche sociali, essendo oramai
la famiglia intesa come raggruppamento di padre-maschio, madre-femmina e
figli (maschi e femmine) qualcosa di superato. La liberazione sessuale
ha permesso infatti alle persone di orientamento "omo" di venire alla
luce e di porsi sullo stesso livello di quelle d'orientamento "etero",
dimodoché anch'essi oggi rivendicano il diritto a sposarsi e ad avere
dei figli. Deve la politica assecondare l'andamento dei tempi e
regolamentare, mediante la legge, codeste ultime esigenze, oppure deve
opporsi a cotale andamento rifiutandosi di riconoscere le emergenti
realtà umane, ostacolandone l'insorgere o addirittura impedendole?
La legalizzazione del matrimonio omosessuale pone diversi problemi. Innanzitutto il problema religioso: l'omosessualità viene infatti giudicata, dalla religione cristiana - ma anche da quella ebraica e da quella islamica - come un abominio, e i suoi atti amorosi sono reputati atti immondi. Perciò difficilmente la Chiesa accetterebbe una ipotesi del genere, e lo Stato sarebbe costretto, qualora volesse procedere sulla propria strada, a passare, mediante le proprie istituzioni, sopra la volontà delle istituzioni ecclesiastiche. Altro problema risulta essere l'opposizione delle correnti tradizionaliste, le quali rifiutano l'idea di una famiglia atipica, credendo quest'ultima una degenerazione dell'istituto familiare normale, o peggio il principio della sua disgregazione. Entrambe le linee si trovano in accordo riguardo alla presunta innaturalità del secondo modello familiare rispetto al primo, visto al contrario come naturale.
La legalizzazione dell'adozione di bambini per le coppie gay suscita problematiche ancora più complesse. Ci si deve chiedere se la sostituzione del dualismo sessuale dei genitori con un monismo sessuale produca o meno conseguenze negative per i piccoli, che subiscono l'influsso e l'educazione dei loro tutori, e a tali questioni deve essere data risposta sicura.
L'affermazione dell'innaturalità della coppia puramente maschile e di quella puramente femminile non ha alcun fondamento. Se infatti si vuol considerare innaturali una tendenza e un atteggiamento, occorre necessariamente che questi non si diano in natura. Ma le tendenze e gli atteggiamenti omosessuali sono presenti nella società umana sin dall'antichità, e possono essere osservati persino nell'universo animale in genere. Ciò basta per smontare le pretese dei clericali e dei tradizionalisti.
La natura di qualunque essere vivente si adatta spontaneamente alle condizioni circostanti, modificandosi in relazione all'ambiente che si offre ai sensi, secondo la legge evolutiva. L'essere umano di fronte all'ambiente familiare non fa eccezione; inoltre, i suoi bisogni si rivolgono non tanto alla persona, quanto a quei doni che la persona è in grado di elargire. Questo vuol dire due cose: da un lato, il bambino volge sempre a proprio bene la situazione familiare impostagli; dall'altro, egli ha bisogno di amore, indifferentemente del fatto che a darglielo siano una coppia uomo-donna, uomo-uomo o donna-donna. La conclusione è presto detta: il bambino saprà trarre beneficio dalla sua famiglia, a patto che la sua famiglia lo ami abbastanza da permetterglielo. Il figlio allora identificherà coloro che si prendono cura di lui come i propri genitori, sebbene in verità non loro ma altri l'hanno generato, e individuerà in loro una figura paterna e una figura materna, un padre e una madre, anche se essi appartengono al medesimo genere sessuale.
La legalizzazione del matrimonio omosessuale pone diversi problemi. Innanzitutto il problema religioso: l'omosessualità viene infatti giudicata, dalla religione cristiana - ma anche da quella ebraica e da quella islamica - come un abominio, e i suoi atti amorosi sono reputati atti immondi. Perciò difficilmente la Chiesa accetterebbe una ipotesi del genere, e lo Stato sarebbe costretto, qualora volesse procedere sulla propria strada, a passare, mediante le proprie istituzioni, sopra la volontà delle istituzioni ecclesiastiche. Altro problema risulta essere l'opposizione delle correnti tradizionaliste, le quali rifiutano l'idea di una famiglia atipica, credendo quest'ultima una degenerazione dell'istituto familiare normale, o peggio il principio della sua disgregazione. Entrambe le linee si trovano in accordo riguardo alla presunta innaturalità del secondo modello familiare rispetto al primo, visto al contrario come naturale.
La legalizzazione dell'adozione di bambini per le coppie gay suscita problematiche ancora più complesse. Ci si deve chiedere se la sostituzione del dualismo sessuale dei genitori con un monismo sessuale produca o meno conseguenze negative per i piccoli, che subiscono l'influsso e l'educazione dei loro tutori, e a tali questioni deve essere data risposta sicura.
L'affermazione dell'innaturalità della coppia puramente maschile e di quella puramente femminile non ha alcun fondamento. Se infatti si vuol considerare innaturali una tendenza e un atteggiamento, occorre necessariamente che questi non si diano in natura. Ma le tendenze e gli atteggiamenti omosessuali sono presenti nella società umana sin dall'antichità, e possono essere osservati persino nell'universo animale in genere. Ciò basta per smontare le pretese dei clericali e dei tradizionalisti.
La natura di qualunque essere vivente si adatta spontaneamente alle condizioni circostanti, modificandosi in relazione all'ambiente che si offre ai sensi, secondo la legge evolutiva. L'essere umano di fronte all'ambiente familiare non fa eccezione; inoltre, i suoi bisogni si rivolgono non tanto alla persona, quanto a quei doni che la persona è in grado di elargire. Questo vuol dire due cose: da un lato, il bambino volge sempre a proprio bene la situazione familiare impostagli; dall'altro, egli ha bisogno di amore, indifferentemente del fatto che a darglielo siano una coppia uomo-donna, uomo-uomo o donna-donna. La conclusione è presto detta: il bambino saprà trarre beneficio dalla sua famiglia, a patto che la sua famiglia lo ami abbastanza da permetterglielo. Il figlio allora identificherà coloro che si prendono cura di lui come i propri genitori, sebbene in verità non loro ma altri l'hanno generato, e individuerà in loro una figura paterna e una figura materna, un padre e una madre, anche se essi appartengono al medesimo genere sessuale.
venerdì 14 febbraio 2014
Diritto ...
Sull'appellativo di giusto riguardo alla legislazione e alla politica
Se si definisce la giustizia come l'essere conforme alla legge, allora
si può pensare che tutte le leggi, quali che siano, siano giuste. Come
può, ci si chiederà a questo punto, una cattiva legge - una legge
repressiva di qualche libertà fondamentale oppure una legge iniqua -
essere, nonostante ciò, detta giusta? Ma la questione, in verità, non è
così posta nel modo più appropriato.
Si dovrebbe piuttosto pensare alla legge come a un qualcosa che può
essere o non essere conforme a una legge superiore. Si consideri ad
esempio il diritto nazionale e il diritto internazionale: se le
direttive del primo si mostreranno in accordo con le direttive del
secondo, ciò vorrà dire che il primo si sarà guadagnato l'appellativo di
giusto. Una legge inferiore è quindi giusta se concorda con una legge
superiore. E la legge superiore, quand'è che sarà dichiarata giusta?
La risposta a codesta domanda è semplice: se non vi è nessun'altra legge
al di sopra di quella ad aver valore maggiore, quella legge non sarà né
giusta né tantomeno ingiusta. Infatti, è la politica a fare le leggi e a
rendere tutto quel che cade sotto il dominio delle leggi giusto oppure
ingiusto, a seconda che si accordi o meno con esse, e da ciò consegue
che, essendo gli uomini a fare la politica, la legislazione e la
giustizia si rivelano come produzioni esclusivamente umane, aventi un
carattere relativo e non invece assoluto.
Se poi determinate leggi siano utili o inutili alla comunità, adeguate o
inadeguate a risolvere una certa problematica sociale, è oggetto di
discussione. Una legge, essendo produzione umana, e potendo gli uomini
sempre ingannarsi e commettere errori; potendo addirittura
intenzionalmente recar danno allo Stato e ai cittadini per perseguire
indegni fini personali, può risultare controproducente e nociva. Eppure
questo non ha nulla a che vedere con il suo essere giusta o ingiusta:
giusto è infatti nient'altro che ciò che è legittimo, ciò che è
giustificato dal diritto e dalla politica che genera il diritto.
martedì 14 gennaio 2014
Riconoscimento ...
Razzismo etnico o etnismo razzista
L'odierno razzismo si contraddistingue per un'attenzione posta sugli
elementi culturali più che su quelli naturali. Fermo restando il
fondamento biologico della diffidenza e del timore nei confronti del
diverso, inteso innanzitutto come diverso d'aspetto, ovverosia avente
caratteristiche fisiologiche altre dalle nostre, si sono giustapposte,
in epoca recente, una diffidenza e un timore verso la diversità
spirituale, e cioè verso i valori, le tradizioni e le concezioni
dissimili, nei quali noi non ci rispecchiamo e che, a partire dal nostro
universo educativo, fatichiamo a comprendere (e spesso nemmeno ci
impegniamo a conoscere). Se fino alla metà del secolo, quindi, era in
auge l'idea di razza, legata appunto alla classificazione delle qualità
fisiche ed esteriori, oggi sembra essere in voga, piuttosto, l'idea di
etnia, che riguarda, di contro, le qualità psichiche e interiori.
Il razzismo odierno, insomma, si delinea come razzismo etnico, o etnismo
razzista. In pochi oramai credono, fortunatamente, nella presenza di
proprietà genetiche che rendano un tipo umano inferiore o superiore
rispetto ad un altro avente proprietà genetiche differenti, e nondimeno
si crede che vi siano delle culture inferiori e superiori, e quindi dei
portatori di cultura inferiori e superiori. Ad esempio, sembra essere
appurata, su basi perlomeno precarie, all'interno dell'opinione pubblica
occidentale, sia essa alta - la comunità intellettuale, le persone
colte - oppure bassa - l'umanità media, la gente semplice -, una
presunta superiorità artistica, scientifica, filosofica, politica,
religiosa e morale delle popolazioni d'Occidente sopra a quelle
d'Oriente e soprattutto Medio Oriente, ma anche delle popolazioni
nordiche su quelle sudiste, come se le società del Nord-Ovest
possedessero un più alto grado di civiltà in confronto a quelle del
Sud-Est del mondo. Ma la stessa cosa può dirsi delle società da noi ritenute inferiori, le quali solitamente reputano sé stesse superiori, per
purezza o sviluppo, alle altre.
Si tratta evidentemente di forme di narcisismo. Ma la verità è che nessuna società, e nessun uomo, può dirsi in toto superiore o inferiore rispetto ad un'altra e ad un altro. Vi saranno sempre, quale che sia la comparazione, determinati fattori di superiorità al fianco di altrettanto determinati fattori di inferiorità a convivere insieme in uno stesso giudizio, a patto che questo sia accurato e scrupoloso. Capire ciò, e accettare (non tollerare, giacché la tolleranza implica un rifiuto e una mera sopportazione di ciò che risulta non ancora accolto) ogni diversità avvicinando il proprio sguardo a essa e imparando ad apprezzarne le componenti migliori, è nient'altro che una questione di intelligenza. Ebbene, la politica degli Stati deve prenderne atto e agire di conseguenza, all'interno come pure all'esterno dei propri confini, particolarmente in un'era in cui la globalizzazione costringe alla convivenza tra uomini e tra culture eterogenei, il che implica la necessità dell'integrazione e dell'assimilazione.
Si tratta evidentemente di forme di narcisismo. Ma la verità è che nessuna società, e nessun uomo, può dirsi in toto superiore o inferiore rispetto ad un'altra e ad un altro. Vi saranno sempre, quale che sia la comparazione, determinati fattori di superiorità al fianco di altrettanto determinati fattori di inferiorità a convivere insieme in uno stesso giudizio, a patto che questo sia accurato e scrupoloso. Capire ciò, e accettare (non tollerare, giacché la tolleranza implica un rifiuto e una mera sopportazione di ciò che risulta non ancora accolto) ogni diversità avvicinando il proprio sguardo a essa e imparando ad apprezzarne le componenti migliori, è nient'altro che una questione di intelligenza. Ebbene, la politica degli Stati deve prenderne atto e agire di conseguenza, all'interno come pure all'esterno dei propri confini, particolarmente in un'era in cui la globalizzazione costringe alla convivenza tra uomini e tra culture eterogenei, il che implica la necessità dell'integrazione e dell'assimilazione.
domenica 8 dicembre 2013
Telos ...
Finalità prima e ultima dell'operato statale e dell'agire politico
Qual è il bene dello Stato? Il bene di qualcosa è ciò verso cui quella
cosa si volge come al proprio fine. Il fine dell'operato statale non può
che essere lo scopo ultimo che guida tutte le iniziative pubbliche.
Ogni iniziativa si dirige in effetti a uno scopo particolare, ma qui si
intende delineare - o meglio, rammentare, in quanto pare essere caduto
nell'oblio - il proposito generale che sta, o dovrebbe stare, dietro a
qualsiasi agire politico e ne determina, o dovrebbe determinare, il
valore.
Giacché la politica è materia di uomini, occorre partire dall'essere
umano. Il fine dell'essere umano è la conservazione, l'affermazione e
l'accrescimento della vita dell'individuo e della specie, come
principalmente vuole l'istinto. Quando lo Stato, ovvero la sola forma
della sovranità, nacque assieme alla comunità umana (ogni raggruppamento
sociale ha infatti bisogno di uno Stato che amministri e governi per
far sì che sia realizzabile la convivenza civile e non si produca il
caos dell'anarchia. Il termine "Stato" va ovviamente tradotto non in
senso di Stato moderno, Stato-nazione, Stato occidentale, e simili, ma
come "qualsivoglia forma di sovranità di qualsivoglia società", sia essa
primitiva o sviluppata, antica o recente), il suo scopo non poteva che
essere quello condiviso da tutti gli uomini al di là delle loro
distinzioni di personalità, carattere, intelligenza e forza, cioè creare
una struttura di ordine nella quale fosse possibile conservare,
affermare e accrescere la vita umana al meglio. Tale obiettivo esprime
l'essenza della politica.
Se ciò è vero, allora quella struttura stessa e quell'ordine devono
essere conservati, affermati e accresciuti, affinché si mantenga,
imponga ed elevi la sua efficienza. Da questo consegue che il fine e il
bene dello Stato è: conservare, affermare e accrescere sé stesso, in
vista della conservazione, dell'affermazione e dell'accrescimento della
vita dell'essere umano, e tutti i fini e i beni secondari sono compresi
in codesto fine e bene primario e debbono servirlo, tanto che, se ciò
non avviene, la politica si corrompe e decade immiserendosi.
domenica 3 novembre 2013
Unione ...
Per il principio dell'unità dello Stato
Circa centocinquant'anni fa si compié quel processo che oggi denominiamo
unità d'Italia (la data convenzionale è il 1861, anno della
proclamazione del Regno
d'Italia, ma in verità l'unificazione fu portata a termine solamente nel
1919, con l'annessione di tutti i territori della penisola). La
Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore nel 1948,
sanciva codesta unità quale uno dei fondamenti dello Stato. Tuttavia,
nel 2001 venne approvata, mediante referendum, una riforma che
introduceva principi di federalismo nel testo costituzionale.
Le modifiche riguardarono alcuni articoli relativi all'ordinamento
territoriale italiano: risulta innanzitutto ampliata la funzione
legislativa attribuita alle regioni; se in precedenza erano
espressamente indicate le competenze regionali e la potestà su tutte le
materie non indicate era dello Stato, ora al contrario sono indicate, e
dunque limitate, le competenze statali, mentre la potestà su tutte le
altre materie viene assegnata alle Regioni. Risultano poi ampliate anche
le funzioni amministrative, organizzative e finanziare degli enti
locali - Regioni, Province e Comuni - aventi adesso maggiori poteri,
autonomie e responsabilità rispetto al passato. Infine, nei rapporti tra
lo Stato e gli enti locali, risultano diminuite le possibilità di
intervento normativo del primo nei confronti dei secondi e aumentate
invece quelle dei secondi nei confronti del primo.
Gli emendamenti suddetti minano il principio dell'unità, conquistato con
il sudore e con il sangue del popolo italiano durante il Risorgimento.
Oltre a ciò, i risultati a cui essi hanno portato sono sotto gli occhi
di tutti: dal 2001 a oggi la corruzione all'interno degli organismi
locali, privati del controllo statale, ha raggiunto gradi esorbitanti;
numerosi enti si ritrovano a essere ostaggio delle mafie e delle
criminalità organizzate, certamente più forti e influenti a livello
locale piuttosto che a quello statale; la tassazione ha ricevuto
un'impennata consistente a causa delle delibere regionali, provinciali e
comunali; interi servizi, quali la sanità e l'istruzione, sono in
rovina anche per via della cattiva gestione da parte degli organi
preposti. Il quadro generale (che non potrà se non peggiorare nel caso
di un effettivo completamento della forma federalista, struttura
culturalmente e materialmente non adatta alla realtà italiana) è quello
di una Stato incapace di far fronte ai problemi e alle esigenze
istituzionali e collettive, non solo perché colpito dall'inettitudine
del personale politico, o in quanto subisce la mancanza degli strumenti
necessari, bensì pure per l'assenza di una base legislativa adeguata,
che riconoscendo l'unione, non soltanto del territorio in sé, ma delle
funzioni di conduzione degli organi territoriali, permetta l'imporsi di
una determinata efficienza nell'azione degli enti locali e di una
conseguente stabilità in tale campo governativo.
giovedì 3 ottobre 2013
Costi ...
Teorie dell'inflazione: una sintesi
Vi è molta incertezza, all'interno della scienza economica, riguardo al
fenomeno dell'inflazione e alla sua interpretazione. Si ha in effetti
difficoltà a scorgere una teoria adeguata, avente pieno riscontro
nell'oggettività dei fatti, e che ponga in accordo le opposte fazioni.
Il motivo di ciò è presto detto: l'inflazione è un caso sociale
estremamente complesso, che come tale si sottrae alle spiegazioni
unilaterali, sin troppo semplicistiche.
Innanzitutto va data una definizione del termine: in economia si dice
"inflazione" l'aumento complessivo del livello medio generale dei
prezzi, o la diminuzione progressiva del potere d'acquisto della moneta.
Tale definizione è condivisa da tutte le scuole economiche, le quali
però si dividono su quelle che dovrebbero essere le cause del fenomeno.
Per i cosiddetti monetaristi, seguaci dell'economista e premio Nobel
Milton Friedman, l'inflazione risulta essere causata da un aumento
eccessivo della quantità di moneta circolante a fronte di una penuria di
merci prodotte. Codesta spiegazione, che è fondamentale ma non tiene
conto di tutte le sfacettature del caso, è divenuta oggi, nella
volgarizzazione del senso comune, ancor più ristretta: l'inflazione si
genererebbe automaticamente come effetto dell'immissione di moneta nella
circolazione. Diverso il parere dei keynesiani, aventi come maestro e
ispiratore l'economista John Maynard Keynes: per essi l'inflazione nasce
da un eccesso della domanda globale sull'offerta globale, a prescindere
dalla quantità di moneta immessa nel sistema. Anche questa spiegazione,
sebbene più ampia della precedente, si mostra insufficiente.
La versione monetarista e quella keynesiana sono le principali teorie concorrenti. Il loro problema è che entrambe edificano la propria tesi ipotizzando una condizione di piena occupazione, ovvero di assenza di disoccupazione, che non ha validità concreta in quanto non si dà nella realtà, e ciò vuol dire che il fenomeno non dovrebbe affatto presentarsi in un regime di occupazione normale, in quanto l'eccesso di moneta o di domanda sarebbe qui equilibrato da una cospicua presenza di disoccupati che, una volta assunti, andrebbero a rimpolpare la produzione e l'offerta. Inoltre riconducono erroneamente l'intera questione a una cagione unitaria non tenendo in considerazione le ulteriori sorgenti inflattive. Ma se si desidera porre le basi per una politica di contenimento e di risoluzione del problema, giacché tale è appunto la presenza d'inflazione all'interno della società, occorre operare una chiarificazione.
Vi sono altri due modi in cui i prezzi dei prodotti possono subire un innalzamento: con l'aumento del valore del prodotto, cioè dei costi per la sua produzione - prezzi dei macchinari e delle materie prime, trasporti, salari, eccetera -, oppure con la diminuzione del valore della moneta, in caso di svalutazione. Va inoltre considerata sia una situazione di concorrenza di mercato, sia una situazione di oligopolio, sia una di monopolio, che influiscono diversamente sul rapporto tra la domanda e l'offerta: nel primo caso infatti i prezzi tenderanno sempre a ridursi, nel secondo tenderanno alla stabilità, ossia a salire e a scendere moderatamente permanendo entro un certo livello, e nell'ultimo a impennarsi. Infine, l'azione della finanza speculativa può influire, attraverso la compravendita di strumenti derivati over the counter, pesantemente sul rialzo dei prezzi.
Sintetizzando i vari elementi elencati si può azzardare una spiegazione che renda conto di tutte le cause in atto: l'origine dell'inflazione va individuata, in definitiva, in un aumento della domanda di merci e servizi, nonché di titoli derivati, all'interno di un sistema economico a bassa produttività aziendale, oppure in mancanza di concorrenza sul mercato dei beni, e in cui sussistano mercati finanziari non regolamentati.
La versione monetarista e quella keynesiana sono le principali teorie concorrenti. Il loro problema è che entrambe edificano la propria tesi ipotizzando una condizione di piena occupazione, ovvero di assenza di disoccupazione, che non ha validità concreta in quanto non si dà nella realtà, e ciò vuol dire che il fenomeno non dovrebbe affatto presentarsi in un regime di occupazione normale, in quanto l'eccesso di moneta o di domanda sarebbe qui equilibrato da una cospicua presenza di disoccupati che, una volta assunti, andrebbero a rimpolpare la produzione e l'offerta. Inoltre riconducono erroneamente l'intera questione a una cagione unitaria non tenendo in considerazione le ulteriori sorgenti inflattive. Ma se si desidera porre le basi per una politica di contenimento e di risoluzione del problema, giacché tale è appunto la presenza d'inflazione all'interno della società, occorre operare una chiarificazione.
Vi sono altri due modi in cui i prezzi dei prodotti possono subire un innalzamento: con l'aumento del valore del prodotto, cioè dei costi per la sua produzione - prezzi dei macchinari e delle materie prime, trasporti, salari, eccetera -, oppure con la diminuzione del valore della moneta, in caso di svalutazione. Va inoltre considerata sia una situazione di concorrenza di mercato, sia una situazione di oligopolio, sia una di monopolio, che influiscono diversamente sul rapporto tra la domanda e l'offerta: nel primo caso infatti i prezzi tenderanno sempre a ridursi, nel secondo tenderanno alla stabilità, ossia a salire e a scendere moderatamente permanendo entro un certo livello, e nell'ultimo a impennarsi. Infine, l'azione della finanza speculativa può influire, attraverso la compravendita di strumenti derivati over the counter, pesantemente sul rialzo dei prezzi.
Sintetizzando i vari elementi elencati si può azzardare una spiegazione che renda conto di tutte le cause in atto: l'origine dell'inflazione va individuata, in definitiva, in un aumento della domanda di merci e servizi, nonché di titoli derivati, all'interno di un sistema economico a bassa produttività aziendale, oppure in mancanza di concorrenza sul mercato dei beni, e in cui sussistano mercati finanziari non regolamentati.
venerdì 13 settembre 2013
Diavolo ...
Momenti estatici socialmente negativi e cerimoniali risanatori
Può essere individuata, nelle società antiche e moderne, una forma
d'estasi volgare e impura, che si presenta come impossessamento della
mente e del corpo, e dominio dell'inconscio sulla persona. Si può notare
codesta forma estatica in tutti i fenomeni isterici compulsivi, ovvero
in tutte quelle occasioni in cui l'uomo perde, per un motivo o per
un'altro, il senno, e agisce quindi in maniera incosciente, mostrando
impetuosi e a tratti sconvolgenti segni di follia: si va dal semplice
raptus o accesso di collera nel caso di uomini comuni affetti da
debolezza psichica, alla violenza brutale e insensata nel caso dei
crimini di guerra commessi dai soldati; dal singolo che per un momento
annulla la propria capacità di intendere e di volere compiendo un atto
empio - l'assassino, lo stupratore patologici -, al collettivo che, per
un tempo più o meno lungo, annichilisce la propria ragione finendo per
appoggiare e commettere idee ed azioni sconsiderate e irrazionali - i
più accesi sostenitori di un Hitler, di uno Stalin, oppure di un Mao. In
siffatte situazioni si ha come un allentamento dei freni inibitori e
una regressione al rango di mero animale, o anzi, peggio ancora, di
bestia bruta. Come può uno Stato limitare cotali espressioni sub-umane?
Di certo l'origine di questi fenomeni sta in quell'elemento profondo,
fautore in egual modo anche delle più grandi e meravigliose espressioni
dell'umano, che risponde al nome di istinto: esso può infatti essere
rivolto verso l'alto come verso il basso, e sta allora al Potere
incoraggiare la prima direzione e fiaccare invece la seconda per il bene
dell'unione civile.
Vi sono state, e vi sono tuttora, delle ritualizzazioni periodiche che
permettono di dirigere le espressioni estatiche negative, lasciando
sfogare le pulsioni aggressive che vi sono celate, e non permettendo che
esse si accumulino per poi esplodere in un depredamento della coscienza
che assume, inevitabilmente, contorni ostili. Rituali di questo tipo
possono essere, ad esempio, i baccanali nelle società greca e romana, ma
anche il tarantismo salentino e, oggi, l'encierro in Spagna, sorta di rituale secolarizzato.
Attraverso cerimoniali tradizionali del genere, legali e sottoposti a regole,
si limitano i danni in cui si incorrerebbe se si lasciasse l'istinto
libero di esprimersi come vuole, senza vincoli di sorta. In tal modo un
evento negativo incontrollabile al livello della persona singola e del
raggruppamento di persone singole può essere sottoposto a controllo e
reso in certa misura più innocuo, tramutando in bene ciò che era volto
al male. Pertanto, è giunta l'ora di pensare alla possibilità di creare
nuovi accorgimenti analoghi (seppure in molti, non comprendendone
l'utilità, li condannano duramente) per accrescere il benessere degli
uomini e migliorare la convivenza tra di essi.
martedì 6 agosto 2013
Elezione ...
Sistemi elettorali e suffragio universale
Ciò che contrassegna la democrazia rappresentativa è il sistema
elettorale, mediante il quale i cittadini possono esercitare quel potere
che da un secolo a questa parte gli è dato. Il presupposto è il
suffragio universale, ovvero il diritto di voto per ogni cittadino che
abbia raggiunto la maggiore età. Detto questo, bisogna in primo luogo
riflettere su quale sia il miglior metodo elettivo, e in secondo luogo
chiedersi in che modo un suffragio allargato e senza restrizioni possa
avere ripercussioni positive sulla politica di un paese.
Due sono le tipologie di sistema elettorale: il maggioritario e il proporzionale, ma sono anche possibili strutture miste che amalgamino insieme entrambi i sistemi di votazione, come ad esempio avviene in Germania e in Giappone. Il sistema maggioritario, in vigore in paesi quali Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, India, Australia e Francia, prevede la suddivisione, salvo casi speciali, del territorio in collegi elettorali uninominali (in cui viene eletto un solo candidato), tanti quanti sono i seggi parlamentari da assegnare; in ogni collegio il candidato è scelto a maggioranza relativa oppure assoluta, e pertanto si avrà, rispettivamente, uno o due turni di votazione. Il governo spetta invece, o al candidato del partito che abbia così ottenuto la maggioranza dei seggi, o al candidato vincitore di una separata elezione. Il sistema proporzionale, in vigore in Brasile, Spagna, Italia, Svizzera, Paesi Bassi, Scandinavia, Russia e altri, si basa sull'uso di una o più circoscrizioni plurinominali, nelle quali vengono presentate, da parte dei partiti, liste aperte o chiuse di candidati che saranno poi votate dagli elettori; i seggi parlamentari risultano qui ripartiti in proporzione alla percentuale di voti ottenuti e il governo è assegnato alla coalizione maggiore.
Il sistema maggioritario possiede, in genere, i vantaggi derivanti da una forte solidità dell'esecutivo, il che corrisponde a una maggiore governabilità - ad esso si associa infatti, di norma, il bipolarismo. Tuttavia può accadere che il partito e il candidato ai quali è affidato il governo non siano quelli che hanno ricevuto i voti della maggioranza dei cittadini. Può addirittura accadere che un partito e un candidato eletti si trovino a dover governare assieme a camere parlamentari nelle quali la maggioranza è in mano alle opposizioni, e ciò si traduce inevitabilmente in uno stallo. Altro problema non tralasciabile è la mancanza di rappresentanza effettiva per ampi strati della popolazione in un modello bipolare, tanto più se bipartitico. A tutto ciò si aggiunge la difficile correggibilità del sistema in sé, che non può essere reso più democratico.
Diverso è il caso del sistema proporzionale, che ha appunto il vantaggio della democraticità, in quanto la quasi totalità della popolazione risulta essere rappresentata in parlamento, e il governo è assegnato ai partiti e ai candidati votati dalla maggioranza reale dei cittadini. Inoltre, nei sistemi del genere solitamente si possono apportare, e si apportano, correzioni come la soglia di sbarramento e il premio di maggioranza per ovviare agli inconvenienti dell'eccessiva frammentazione partitica e della possibile instabilità dell'esecutivo. Unico difetto, se tale si può definire, è l'obbligo per il partito e il candidato che abbiano ricevuto il maggior numero di voti di coalizzarsi con altre formazioni in vista dell'ottenimento della maggioranza alle camere, cosa che implica il dover conciliare il proprio programma elettorale con quello delle altre formazioni, mediando tra le loro richieste. Quest'obbligo ha però anche il merito di incoraggiare il governante ad acquisire una maggiore abilità e intelligenza nelle questioni politiche.
Appare allora evidente la superiorità del sistema elettorale proporzionale su quello maggioritario (con la sola eccezione della situazione italiana, in cui i diversi metodi d'assegnazione del premio di maggioranza - di un'ampiezza peraltro eccessiva - per ognuna delle due camere fanno sì che, se anche in una di queste si ottiene la maggioranza dei seggi, nell'altra non si è invece certi di ottenerla, con il conseguente rischio di ingovernabilità. Tale è l'anomalia nostrana, che non intacca il valore del sistema proporzionale).
Ora si può rispondere al secondo quesito che, all'inizio, è stato posto: davvero il suffragio universale fu un progresso per la politica? Se tutti i cittadini devono poter eleggere i propri rappresentanti, allora bisogna anche assicurarsi che essi possiedano un'indipendenza confacente, una buona cultura storica, una comprensione adeguata delle vicende politiche e un'opportuna visione d'insieme che gli permettano di votare non secondo una moda, né abbandonandosi all'intensità di un sentimento o impulso irrazionale destato da qualsivoglia personaggio carismatico, e neppure sotto l'influsso delle opinioni e dei pregiudizi di persone assieme alle quali si vive, o anche di una propaganda mediatica faziosa. E se così non fosse, allora la politica di un paese sarebbe più di tutto determinata da codesta serie di variabili, le quali possono facilmente concorrere contro quello che è il vantaggio pubblico e collettivo.
Due sono le tipologie di sistema elettorale: il maggioritario e il proporzionale, ma sono anche possibili strutture miste che amalgamino insieme entrambi i sistemi di votazione, come ad esempio avviene in Germania e in Giappone. Il sistema maggioritario, in vigore in paesi quali Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, India, Australia e Francia, prevede la suddivisione, salvo casi speciali, del territorio in collegi elettorali uninominali (in cui viene eletto un solo candidato), tanti quanti sono i seggi parlamentari da assegnare; in ogni collegio il candidato è scelto a maggioranza relativa oppure assoluta, e pertanto si avrà, rispettivamente, uno o due turni di votazione. Il governo spetta invece, o al candidato del partito che abbia così ottenuto la maggioranza dei seggi, o al candidato vincitore di una separata elezione. Il sistema proporzionale, in vigore in Brasile, Spagna, Italia, Svizzera, Paesi Bassi, Scandinavia, Russia e altri, si basa sull'uso di una o più circoscrizioni plurinominali, nelle quali vengono presentate, da parte dei partiti, liste aperte o chiuse di candidati che saranno poi votate dagli elettori; i seggi parlamentari risultano qui ripartiti in proporzione alla percentuale di voti ottenuti e il governo è assegnato alla coalizione maggiore.
Il sistema maggioritario possiede, in genere, i vantaggi derivanti da una forte solidità dell'esecutivo, il che corrisponde a una maggiore governabilità - ad esso si associa infatti, di norma, il bipolarismo. Tuttavia può accadere che il partito e il candidato ai quali è affidato il governo non siano quelli che hanno ricevuto i voti della maggioranza dei cittadini. Può addirittura accadere che un partito e un candidato eletti si trovino a dover governare assieme a camere parlamentari nelle quali la maggioranza è in mano alle opposizioni, e ciò si traduce inevitabilmente in uno stallo. Altro problema non tralasciabile è la mancanza di rappresentanza effettiva per ampi strati della popolazione in un modello bipolare, tanto più se bipartitico. A tutto ciò si aggiunge la difficile correggibilità del sistema in sé, che non può essere reso più democratico.
Diverso è il caso del sistema proporzionale, che ha appunto il vantaggio della democraticità, in quanto la quasi totalità della popolazione risulta essere rappresentata in parlamento, e il governo è assegnato ai partiti e ai candidati votati dalla maggioranza reale dei cittadini. Inoltre, nei sistemi del genere solitamente si possono apportare, e si apportano, correzioni come la soglia di sbarramento e il premio di maggioranza per ovviare agli inconvenienti dell'eccessiva frammentazione partitica e della possibile instabilità dell'esecutivo. Unico difetto, se tale si può definire, è l'obbligo per il partito e il candidato che abbiano ricevuto il maggior numero di voti di coalizzarsi con altre formazioni in vista dell'ottenimento della maggioranza alle camere, cosa che implica il dover conciliare il proprio programma elettorale con quello delle altre formazioni, mediando tra le loro richieste. Quest'obbligo ha però anche il merito di incoraggiare il governante ad acquisire una maggiore abilità e intelligenza nelle questioni politiche.
Appare allora evidente la superiorità del sistema elettorale proporzionale su quello maggioritario (con la sola eccezione della situazione italiana, in cui i diversi metodi d'assegnazione del premio di maggioranza - di un'ampiezza peraltro eccessiva - per ognuna delle due camere fanno sì che, se anche in una di queste si ottiene la maggioranza dei seggi, nell'altra non si è invece certi di ottenerla, con il conseguente rischio di ingovernabilità. Tale è l'anomalia nostrana, che non intacca il valore del sistema proporzionale).
Ora si può rispondere al secondo quesito che, all'inizio, è stato posto: davvero il suffragio universale fu un progresso per la politica? Se tutti i cittadini devono poter eleggere i propri rappresentanti, allora bisogna anche assicurarsi che essi possiedano un'indipendenza confacente, una buona cultura storica, una comprensione adeguata delle vicende politiche e un'opportuna visione d'insieme che gli permettano di votare non secondo una moda, né abbandonandosi all'intensità di un sentimento o impulso irrazionale destato da qualsivoglia personaggio carismatico, e neppure sotto l'influsso delle opinioni e dei pregiudizi di persone assieme alle quali si vive, o anche di una propaganda mediatica faziosa. E se così non fosse, allora la politica di un paese sarebbe più di tutto determinata da codesta serie di variabili, le quali possono facilmente concorrere contro quello che è il vantaggio pubblico e collettivo.
lunedì 8 luglio 2013
Patto ...
Amicizie, alleanze
Uno dei fraintendimenti più frequenti dell'opinione pubblica è quello di
considerare l'amicizia politica un legame affettivo tra uomini,
ovverosia di considerarla così come si considera, nei normali rapporti
sociali, l'amicizia ordinaria. Va pertanto chiarita la differenza tra le
due, soprattutto allo scopo di non cadere in errore nel momento in cui
si voglia giudicare un governante su questo argomento.
L'amicizia politica, innanzitutto, è un legame amorale, ed anzi è la
politica in genere a porsi sempre al di là, o al disopra, del bene, del
male e di qualsivoglia concetto morale. L'unico scopo dell'agire
politico è infatti governare in vista del vantaggio collettivo, cioè del
vantaggio concreto dello Stato e di tutti - o perlomeno la stragrande
maggioranza - i suoi cittadini, e ciò può implicare, a volte, il dover
operare immoralmente, avendo come fine codesto vantaggio. Dal punto di
vista politico, quindi, un mezzo immorale è comunque un mezzo lecito,
essendo spesso non soltanto inevitabile ma bensì persino necessario al
raggiungimento dello scopo. L'amicizia politica è, per l'appunto, uno di
questi mezzi.
Ma più che "amicizia", termine che di fatto genera il fraintendimento,
la parola che si rivela maggiormente adeguata a denominare tale legame è
quella di "alleanza". L'alleanza è un'unione temporanea tra due o più
individui o gruppi di individui, i quali si trovano a perseguire degli
intenti comuni. La temporaneità del legame va sottolineata: un'alleanza
dura solamente finché l'interesse delle parti resta il medesimo e non
oltre, e questa radice utilitaristica è estranea all'amicizia, la quale
si basa, invece, sul sentimento. Se ciò è vero, allora un politico che
instauri un'alleanza con un personaggio reputato spregevole o
disprezzabile lo farà esclusivamente per un interesse, sia esso
interesse personale e privato (e in tal caso si avrà un cattivo
politico) oppure impersonale e pubblico (e si avrà allora il buon
politico), e in quest'ultimo caso non si dovrà, dunque, condannarlo né
tantomeno averne vergogna.
Da questo tipo di collaborazione nascono, ad esempio, le coalizioni di governo tra i partiti e gli accordi commerciali tra i capi di Stato, cose essenziali alla vita di ogni società.
Da questo tipo di collaborazione nascono, ad esempio, le coalizioni di governo tra i partiti e gli accordi commerciali tra i capi di Stato, cose essenziali alla vita di ogni società.
giovedì 20 giugno 2013
Paradigma ...
Destra e sinistra oggi
Dinanzi alla frequente insinuazione per cui non vi sarebbero più, oggi,
né destra né sinistra in ambito politico; di fronte al crescente
qualunquismo dell'opinione pubblica, la quale percepisce gli atti dello
Stato come neutri, o meglio semplicemente quali volti al bene dei
cittadini e della nazione oppure, al contrario, quali volti al loro male
- come se non esistessero idee storiche di base su cui questi atti si
fondano e istituiscono - occorre indicare quali siano, nell'era
contemporanea, le posizioni di destra e quali invece quelle di sinistra
in senso globale. Dichiararsi infatti di destra o di sinistra, oppure
militare in un partito che si dichiari di destra o di sinistra, non è
sufficiente a porre la distinzione, distinzione che in tal caso
risulterebbe essere meramente nominale e non essenziale.
Si ritrovano innanzitutto i cosiddetti estremismi, che si incarnano, da
un lato, nel neo-fascismo/neo-nazismo e simili, e, dall'altro, nel
neo-comunismo/neo-anarchismo e formazioni analoghe. Quel che codeste
formazioni possiedono in comune è il fatto di essere anti-capitaliste,
laddove il capitalismo (nella sua forma rinnovata di neo-capitalismo),
si mostra quale paradigma dominante della nostra epoca. Il loro vizio,
anch'esso comune, è l'assenza di una visione alternativa concreta e
plausibile del potere, e il loro essere perciò volti alla mera
distruzione dei sistemi economico-politici esistenti, nella mancanza di
una pars construens adeguata.
Di contro a ciò vi sono poi i ben più realistici, e quindi maggioritari, schieramenti moderati, cioè i gruppi, entrambi compresi all'interno del paradigma dominante suddetto, neo-liberista/monetarista e neo-keynesiano/socialista. Non è un caso che si tratti di raggruppamenti ideologici di stampo economico innanzitutto: nel nostro tempo infatti la categoria politica si è vista surclassata, in rilevanza, dalla categoria economica, e pertanto è l'economia a presentarsi come egemone e, di conseguenza, a determinare la politica, e non viceversa, come fu in un passato neanche troppo lontano.
Di contro a ciò vi sono poi i ben più realistici, e quindi maggioritari, schieramenti moderati, cioè i gruppi, entrambi compresi all'interno del paradigma dominante suddetto, neo-liberista/monetarista e neo-keynesiano/socialista. Non è un caso che si tratti di raggruppamenti ideologici di stampo economico innanzitutto: nel nostro tempo infatti la categoria politica si è vista surclassata, in rilevanza, dalla categoria economica, e pertanto è l'economia a presentarsi come egemone e, di conseguenza, a determinare la politica, e non viceversa, come fu in un passato neanche troppo lontano.
Nella mancanza di concretezza dei primi due termini presentati (di cui
il secondo risulta comunque immensamente utile nell'individuare, da una
prospettiva esterna, le storture sociali altrimenti non individuabili e
nel contribuire con forza al loro raddrizzamento mediante lotta di
classe), la destra e la sinistra coincidono propriamente, e
rispettivamente, con il movimento neo-liberista e monetarista, e con
quello neo-keynesiano e socialista. Si ha poi l'eccezione nordica,
ovvero la via di mezzo tra le due opposte configurazioni precedenti.
La destra neo-liberista e monetarista è la via prevalente in Nord-America, Europa e Giappone, ed ha come suoi principi la proprietà privata, lo Stato minimo, la deregulation, la sorveglianza sul debito pubblico e sull'inflazione. Ciò vuol dire: economia in mano ai privati, non-interferenza del settore pubblico, politiche di limitazione e di controllo dell'offerta di moneta. Suo vizio: una visione elitaria e ipocrita del potere.
La sinistra neo-keynesiana e socialista è la via prevalente nell'area dei B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ovverosia dei paesi emergenti, ed ha come principi cardine la proprietà pubblica, lo statalismo, la regolamentazione del mercato, gli investimenti produttivi. Il che significa: economia in mano allo Stato, settore pubblico dominante, politiche monetarie espansive. Suo vizio: una visione autoritaria e dispotica del potere.
Si hanno dunque due modi diversi di intendere il libero mercato e la concorrenza, i quali restano gli elementi essenziali del paradigma capitalistico, assieme all'export quale sorgente primaria di ricchezza.
L'eccezione nordica, così definita in quanto via prevalente nei paesi scandinavi: Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, si presenta infine come un socialismo liberale, laddove principi sono, da un lato, la proprietà privata e la deregolamentazione; dall'altro, lo statalismo - soprattutto per quanto riguarda il Welfare - e gli investimenti produttivi. In definitiva una mediazione virtuosa di cultura Nord-Occidentale e cultura Sud-Orientale, di destra e sinistra nelle loro espressioni migliori.
Non vi è altra via percorribile oltre queste tre, e occorre pertanto schierarsi da una parte o dall'altra.
La destra neo-liberista e monetarista è la via prevalente in Nord-America, Europa e Giappone, ed ha come suoi principi la proprietà privata, lo Stato minimo, la deregulation, la sorveglianza sul debito pubblico e sull'inflazione. Ciò vuol dire: economia in mano ai privati, non-interferenza del settore pubblico, politiche di limitazione e di controllo dell'offerta di moneta. Suo vizio: una visione elitaria e ipocrita del potere.
La sinistra neo-keynesiana e socialista è la via prevalente nell'area dei B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ovverosia dei paesi emergenti, ed ha come principi cardine la proprietà pubblica, lo statalismo, la regolamentazione del mercato, gli investimenti produttivi. Il che significa: economia in mano allo Stato, settore pubblico dominante, politiche monetarie espansive. Suo vizio: una visione autoritaria e dispotica del potere.
Si hanno dunque due modi diversi di intendere il libero mercato e la concorrenza, i quali restano gli elementi essenziali del paradigma capitalistico, assieme all'export quale sorgente primaria di ricchezza.
L'eccezione nordica, così definita in quanto via prevalente nei paesi scandinavi: Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, si presenta infine come un socialismo liberale, laddove principi sono, da un lato, la proprietà privata e la deregolamentazione; dall'altro, lo statalismo - soprattutto per quanto riguarda il Welfare - e gli investimenti produttivi. In definitiva una mediazione virtuosa di cultura Nord-Occidentale e cultura Sud-Orientale, di destra e sinistra nelle loro espressioni migliori.
Non vi è altra via percorribile oltre queste tre, e occorre pertanto schierarsi da una parte o dall'altra.
sabato 11 maggio 2013
Bruttezza ...
Politiche infrastrutturali e imbruttimento dei paesaggi
Le scellerate politiche infrastrutturali delle nazioni del mondo hanno
come risultato il deturpamento della bellezza del paesaggio. Laddove la
natura viene sostituita dall'artificio umano si ha, infatti, in pari
tempo un imbruttimento, ovverosia una perdita di grazia, armonia e
perfezione; tutto ciò che vien fuori dalla mano dell'uomo è sgraziato,
disarmonico, imperfetto se non ha come suo modello ciò che vien fuori
dalla mano di Dio. I terreni, dunque, vengono cementificati, il cieli e
le acque oscurati dai fumi e dai liquami dell'inquinamento, gli alberi
sono abbattuti e sostituiti da immensi quanto sgradevoli palazzi, nonché
da tetri edifici in metallo, le luci delle stelle sono soppiantate
dalle luci dei lampioni, e con la scomparsa del verde dei campi si fa
avanti il grigio delle città. Tutto ciò non può che avere un risultato
soltanto: la perdita del piacere della percezione.
Tutto ciò che prima procurava alla vista - ma anche agli altri sensi,
odori, sapori e suoni naturali - diletto ora è del tutto scomparso o sta
gradualmente scomparendo, e addirittura, nell'abitudine a vivere in un
ambiente spiacevole, si è disimparato a riconoscere il bello. Inoltre,
se quel diletto aveva come risultato il far sorgere nell'animo serenità e
letizia, ora al contrario la presenza del brutto fa sorgere nient'altro
che irrequietudine e malinconia (e anche questo, checché se ne dica,
contribuisce alla felicità o infelicità di una persona). Pertanto,
occorre invertire la rotta se non si vuole giungere a morire prima
ancora di arrivare alla fine dei propri giorni: la bellezza
paesaggistica è infatti nient'altro che vitalità, in quanto la natura si
mostra viva allo sguardo, e una tale vitalità si trasmette agli uomini
che in essa e al fianco di essa trascorrono la propria esistenza.
Ciò significa, ad esempio, lasciare ampi spazi naturali all'interno delle città (giardini, parchi, eccetera), costruire fabbricati che siano meno invadenti, usare materiali non inquinanti e, in generale, prendersi cura del mondo in cui si vive, facendo in modo che sia la natura a prevalere e non invece l'artificio umano. E in ultimo, che proliferino i monumenti, giacché essi soltanto, creazioni dello spirito aventi come fine, appunto, la bellezza, riproducono il bello e lo offrono agli occhi degli uomini.
Ciò significa, ad esempio, lasciare ampi spazi naturali all'interno delle città (giardini, parchi, eccetera), costruire fabbricati che siano meno invadenti, usare materiali non inquinanti e, in generale, prendersi cura del mondo in cui si vive, facendo in modo che sia la natura a prevalere e non invece l'artificio umano. E in ultimo, che proliferino i monumenti, giacché essi soltanto, creazioni dello spirito aventi come fine, appunto, la bellezza, riproducono il bello e lo offrono agli occhi degli uomini.
domenica 7 aprile 2013
Terrore ...
Terrorismo e conflitti del nostro tempo
L'antagonismo tra Occidente e Medio Oriente ha come prodotto principale quella forma estrema di azione che è il terrorismo islamico. Nato come reazione locale, di stampo prettamente nazionalistico, all'invasione sovietica dell'Afghanistan, il fenomeno delle organizzazioni terroristiche, in principio appoggiate e sostenute dallo stesso Occidente in funzione, appunto, anti-sovietica - era infatti in atto la cosiddetta guerra fredda tra le due super-potenze U.S.A. e U.R.S.S. - si è sempre più ampliato fino ad assumere carattere internazionale. Il culmine di questo processo furono gli attentati terroristici che investirono le Torri Gemelle di New York e il Pentagono nel 2001, i quali delinearono definitivamente il terrorismo come lotta globale. Con la caduta della Russia comunista dunque non sono cessate le operazioni dei gruppi fondamentalisti: perché questo? La risposta è sotto agli occhi di ognuno: non sono mai cessate le politiche neo-colonialiste miranti al dominio dei territori tra Europa e Asia, bensì semplicemente si è avuto una sorta di passaggio di consegne in favore della NATO, che trovò, a un certo momento, spianata la strada agli interventi militari nella regione, frutto di evidenti interessi economici e strategici (sebbene mascherati da libertarismo e umanitarismo). La prima guerra del Golfo, che fu anche in assoluto la prima guerra mediatica, si pone come evento paradigmatico in tal senso.
Il terrorismo è dunque essenzialmente un movimento radicale di resistenza, un movimento partigiano macchiato di odio nei confronti dei paesi occidentali e filo-occidentali colpevoli, con le loro continue e deleterie ingerenze, di tenere un atteggiamento invadente e oppressivo nei confronti delle popolazioni musulmane; pertanto, un movimento politico innanzitutto e solo in secondo luogo un movimento religioso. L'esperienza e la storia mostrano come l'influenza straniera in quei luoghi non abbia fatto altro che portare guerra, disordine e povertà impedendo qualsiasi tentativo di sviluppo; è qui e non altrove che il fondamentalismo islamico ha la sua matrice. Occorre quindi invertire il consueto rapporto di causa ed effetto nella percezione che ordinariamente abbiamo del problema: non è il fondamentalismo a sorgere dal nulla e a costringere l'Occidente ad agire contro di esso con violenza, quanto piuttosto l'azione violenta e illegittima dell'Occidente a generare e nutrire il fondamentalismo, nonché a giustificarlo nella sua azione distruttiva. Solo nel momento in cui gli Stati cristiani (e, non si dimentichi, lo Stato ebraico, con la sua politica di aggressione ai danni dei palestinesi) si pongono di fatto come nemici dell'Islam, agendo come tali, gli islamici cominciano a considerarli "infedeli"; solo nel momento in cui quelli iniziano a inneggiare alla guerra giusta, ponendo in atto le loro "missioni di pace", questi in risposta, e a difesa della propria integrità di popolo - non a caso un altro termine che li definisce è quello di integralisti - proclamano la guerra santa. Se ciò è vero allora l'unica soluzione al terrorismo non può che essere la totale e immediata cessazione di ogni ostilità verso i paesi musulmani, e la fine dell'intromissione straniera all'interno delle loro questioni, dimodoché le tendenze estremiste in breve tempo finirebbero per perdere interamente il consenso che ora possiedono, in quanto il fondamentalismo non avrebbe più alcun motivo per sussistere.
L'antagonismo tra Occidente e Medio Oriente ha come prodotto principale quella forma estrema di azione che è il terrorismo islamico. Nato come reazione locale, di stampo prettamente nazionalistico, all'invasione sovietica dell'Afghanistan, il fenomeno delle organizzazioni terroristiche, in principio appoggiate e sostenute dallo stesso Occidente in funzione, appunto, anti-sovietica - era infatti in atto la cosiddetta guerra fredda tra le due super-potenze U.S.A. e U.R.S.S. - si è sempre più ampliato fino ad assumere carattere internazionale. Il culmine di questo processo furono gli attentati terroristici che investirono le Torri Gemelle di New York e il Pentagono nel 2001, i quali delinearono definitivamente il terrorismo come lotta globale. Con la caduta della Russia comunista dunque non sono cessate le operazioni dei gruppi fondamentalisti: perché questo? La risposta è sotto agli occhi di ognuno: non sono mai cessate le politiche neo-colonialiste miranti al dominio dei territori tra Europa e Asia, bensì semplicemente si è avuto una sorta di passaggio di consegne in favore della NATO, che trovò, a un certo momento, spianata la strada agli interventi militari nella regione, frutto di evidenti interessi economici e strategici (sebbene mascherati da libertarismo e umanitarismo). La prima guerra del Golfo, che fu anche in assoluto la prima guerra mediatica, si pone come evento paradigmatico in tal senso.
Il terrorismo è dunque essenzialmente un movimento radicale di resistenza, un movimento partigiano macchiato di odio nei confronti dei paesi occidentali e filo-occidentali colpevoli, con le loro continue e deleterie ingerenze, di tenere un atteggiamento invadente e oppressivo nei confronti delle popolazioni musulmane; pertanto, un movimento politico innanzitutto e solo in secondo luogo un movimento religioso. L'esperienza e la storia mostrano come l'influenza straniera in quei luoghi non abbia fatto altro che portare guerra, disordine e povertà impedendo qualsiasi tentativo di sviluppo; è qui e non altrove che il fondamentalismo islamico ha la sua matrice. Occorre quindi invertire il consueto rapporto di causa ed effetto nella percezione che ordinariamente abbiamo del problema: non è il fondamentalismo a sorgere dal nulla e a costringere l'Occidente ad agire contro di esso con violenza, quanto piuttosto l'azione violenta e illegittima dell'Occidente a generare e nutrire il fondamentalismo, nonché a giustificarlo nella sua azione distruttiva. Solo nel momento in cui gli Stati cristiani (e, non si dimentichi, lo Stato ebraico, con la sua politica di aggressione ai danni dei palestinesi) si pongono di fatto come nemici dell'Islam, agendo come tali, gli islamici cominciano a considerarli "infedeli"; solo nel momento in cui quelli iniziano a inneggiare alla guerra giusta, ponendo in atto le loro "missioni di pace", questi in risposta, e a difesa della propria integrità di popolo - non a caso un altro termine che li definisce è quello di integralisti - proclamano la guerra santa. Se ciò è vero allora l'unica soluzione al terrorismo non può che essere la totale e immediata cessazione di ogni ostilità verso i paesi musulmani, e la fine dell'intromissione straniera all'interno delle loro questioni, dimodoché le tendenze estremiste in breve tempo finirebbero per perdere interamente il consenso che ora possiedono, in quanto il fondamentalismo non avrebbe più alcun motivo per sussistere.
venerdì 8 marzo 2013
Zeitgeist ...
Struttura e origini psicologiche dei cospirazionismi
La politica è un'attività razionale, che pertanto va pensata come tale,
pena il suo totale fraintendimento; eppure la nostra epoca vede imporsi
in maniera preoccupante la fantasia sopra alla ragione nel modo di
pensare politico comune. Effetto di un tale prevalere è la
proliferazione delle più varie e illogiche teorie complottistiche tra le
moltitudini, teorie il cui luogo di nascita e diffusione sta nella
rete, la quale ben si presta, in quanto luogo libero, a ospitare notizie
di siffatto genere, prive di fonti o aventi fonti inattendibili. Dalle
assurde ricostruzioni alternative dei fatti riguardo a eventi capitali
del nostro tempo come l'attentato terroristico alle Torri Gemelle di New
York dell'11 settembre 2001, alle bizzarre elucubrazioni sul
signoraggio bancario e il funzionamento dell'economia mondiale; dalle
presunte scie chimiche che costellerebbero i cieli al fantomatico
progetto H.A.A.R.P. di marca statunitense; dai chip sottocutanei al
sionismo mondiale, fino alle improbabili ipotesi su UFO e forme di vita
aliene, lo schema permane sempre identico: partendo da elementi reali si
afferma una tesi che è palesemente frutto di invenzione, in quanto
inverosimile e priva di riscontri oggettivi; dopodiché la si "dimostra"
attraverso argomentazioni pseudo-scientifiche, nonché attraverso
testimonianze, foto e video intenzionalmente contraffatti per far
destare un certo tipo di impressioni nei fruitori e persuadere le loro
coscienze a prestar fede a determinate idee; infine codesta informazione
falsificata viene venduta o divulgata gratuitamente, oppure divulgata
gratuitamente per poi essere venduta. Dal punto di vista dei contenuti
si hanno invece, da un lato, uno o più nemici, crudeli burattinai
concentranti nelle proprie mani il potere e le sorti del mondo,
dall'altro, gli uomini-burattini inconsapevolmente oppressi da quel
potere; da un lato la verità tenuta segreta a scopi meschini di dominio e
ricchezza, dall'altro la menzogna e l'illusione in cui le masse
sarebbero mantenute in funzione del controllo che deve essere su di loro
esercitato dall'alto. Il bene e il male dunque, nettamente distinti e
definiti, come nelle più classiche narrazioni infantili.
Superfluo è sottolineare la superficialità e banalità di cotali
interpretazioni, la stupidità e la malafede che si nascondono dietro di
esse, gli effetti nocivi e diseducativi della visione del mondo che
propugnano con forza. Più utile è mostrare il perché tutte queste teorie
del complotto vengano così facilmente credute, acriticamente accolte
nonostante la loro evidente infondatezza. Al di là delle sempre presenti
motivazioni economiche scovabili dietro alla loro nascita, si celano
ben più forti motivazioni di carattere psicologico che ne chiariscono
anche la diffusione: ogni uomo ama fantasticare di altre realtà per dar
sfogo ai propri desideri, che si delineano in questo caso come desideri
di conoscenza di contro a una condizione di ignoranza, e come desideri
di sicurezza a fronte di un'esistenza precaria e incerta; da qui alla
fiducia accordata a visioni che promettono di colmare codeste lacune il
passo è breve. I complottismi infatti spiegano con semplicità alcuni
fenomeni complessi del mondo e così donano agli uomini una sorta di
strumento di difesa contro le vicissitudini del caso (seppure poi quelle
spiegazioni si rivelano false e quegli strumenti fittizi). Vi è anche
una indubbia componente d'odio nei confronti dei governanti, ai quali
sono attribuite le colpe della propria infelicità e insoddisfazione, e
della propria miseria e povertà, ma più in generale si può individuare
alla base un desiderio narcisistico di potenza, che finisce per riempire
l'animo di vanità: il complottista è convinto di aver svelato un
inganno, e da quel momento si percepisce come un privilegiato rispetto
agli altri suoi simili, uno dei pochi uomini svegli in un mondo popolato
di dormienti. Questa presunzione offre in definitiva un piacevole
appagamento, che deriva dalla certezza immaginaria di essere
fuoriusciti, per mezzo della propria intelligenza, da uno stato di
impotenza e di minorità.
venerdì 15 febbraio 2013
Deriva ...
Progetto politico su diritto allo studio, diritto al lavoro e speculazione finanziaria
Il diritto allo studio e il diritto al lavoro sono le più grandi
conquiste giuridiche della nostra epoca. Assicurare lo studio e il
lavoro significa far sì che lo Stato garantisca per legge la loro
possibilità, non semplicemente come libertà di, bensì inoltre come
dovere di. A ogni diritto infatti corrispondono parimenti una libertà e
un dovere del medesimo tipo: la libertà di svolgere determinate attività
della mente e della mano in funzione della realizzazione dei propri
desideri, la libertà di scegliere tra varie opzioni possibili riguardo a
come indirizzare la propria vita a piacimento, non può che essere
controbilanciata da un dovere o obbligo di impegnarsi in codeste
attività teoretiche e pratiche per il bene della collettività, entro
limiti stabiliti; così soltanto possono coniugarsi l'interesse
individuale e quello generale. Ciò vuol dire allora che
l'analfabetismo e la disoccupazione risultano essere, oltre che piaghe
sociali, fenomeni illegali e anticostituzionali, da sopprimere in quanto
tali attraverso una politica adeguata (se si crede che questo sia
impossibile totalmente in una società dalla popolazione numerosa, si
convenga però sul fatto che è certamente possibile in misura quasi
totale, e numerosi Stati del mondo stanno lì a dimostrarlo. Portare la
percentuale di analfabetizzazione vicino allo 0% e quella di
disoccupazione vicino all'1 o al 2% dovrebbe essere, beninteso, l'obiettivo di
qualsiasi governo).
Posto ciò, occorre altresì operare una distinzione tra due categorie di attività: da un lato l'attività che ha come fine il mero profitto personale, senza riguardo alle esigenze del corpo sociale o addirittura ponendosi in contrasto con esse; dall'altro l'attività che ha come fine proprio l'utilità sociale, e che fa della garanzia di un sostentamento economico il mezzo per raggiungere tale fine. Il senso della pratica lavorativa si incarna evidentemente in quest'ultima categoria, giacché è logico che non è possibile umanità né civiltà alcuna senza uno Stato che doni ad ognuno i beni e i servizi essenziali all'esistenza associata, sopperendo ai bisogni fondamentali. Secondo quest'ottica tutti quegli insegnamenti e mestieri che non fossero in qualche modo, dunque direttamente o indirettamente, portatori di un vantaggio, non necessariamente economico e materiale, ma anche culturale e spirituale, dovrebbero essere proibiti e impediti. Eppure accade che, nel contesto occidentale e non solo, vi siano mestieri, e relativi insegnamenti, legati a una pratica che nel migliore dei casi si delinea come a-sociale, cioè socialmente indifferente, e nel peggiore dei casi come anti-sociale, cioè socialmente deleteria: questa pratica è la speculazione finanziaria - sia essa speculazione al rialzo oppure al ribasso, al coperto oppure allo scoperto - la quale domina in lungo e in largo le economie capitalistiche odierne più che quelle passate. Non si contano le bolle speculative, le perdite di capitali, le sottrazioni di ricchezza causate dall'esercizio di codesta attività manifestantesi, pare, esclusivamente in forme nocive per la collettività, a vantaggio di pochi individui e raggruppamenti di individui. Minando la comunità in quella che è la sue base (la collaborazione degli uomini in vista di un bene maggiore) e minacciando la stabilità finanziaria degli Stati, la pratica della speculazione va innanzitutto regolamentata in modo da risolverne le incongruenze più eclatanti e arginarne le conseguenze più estreme - ad esempio per quanto concerne il mercato degli strumenti derivati - e infine abolita del tutto in un processo che sia graduale ma nondimeno inesorabile.
Posto ciò, occorre altresì operare una distinzione tra due categorie di attività: da un lato l'attività che ha come fine il mero profitto personale, senza riguardo alle esigenze del corpo sociale o addirittura ponendosi in contrasto con esse; dall'altro l'attività che ha come fine proprio l'utilità sociale, e che fa della garanzia di un sostentamento economico il mezzo per raggiungere tale fine. Il senso della pratica lavorativa si incarna evidentemente in quest'ultima categoria, giacché è logico che non è possibile umanità né civiltà alcuna senza uno Stato che doni ad ognuno i beni e i servizi essenziali all'esistenza associata, sopperendo ai bisogni fondamentali. Secondo quest'ottica tutti quegli insegnamenti e mestieri che non fossero in qualche modo, dunque direttamente o indirettamente, portatori di un vantaggio, non necessariamente economico e materiale, ma anche culturale e spirituale, dovrebbero essere proibiti e impediti. Eppure accade che, nel contesto occidentale e non solo, vi siano mestieri, e relativi insegnamenti, legati a una pratica che nel migliore dei casi si delinea come a-sociale, cioè socialmente indifferente, e nel peggiore dei casi come anti-sociale, cioè socialmente deleteria: questa pratica è la speculazione finanziaria - sia essa speculazione al rialzo oppure al ribasso, al coperto oppure allo scoperto - la quale domina in lungo e in largo le economie capitalistiche odierne più che quelle passate. Non si contano le bolle speculative, le perdite di capitali, le sottrazioni di ricchezza causate dall'esercizio di codesta attività manifestantesi, pare, esclusivamente in forme nocive per la collettività, a vantaggio di pochi individui e raggruppamenti di individui. Minando la comunità in quella che è la sue base (la collaborazione degli uomini in vista di un bene maggiore) e minacciando la stabilità finanziaria degli Stati, la pratica della speculazione va innanzitutto regolamentata in modo da risolverne le incongruenze più eclatanti e arginarne le conseguenze più estreme - ad esempio per quanto concerne il mercato degli strumenti derivati - e infine abolita del tutto in un processo che sia graduale ma nondimeno inesorabile.
giovedì 3 gennaio 2013
Medium ...
Potere mediatico e inganno di massa
I mezzi di comunicazione - e quindi anche di educazione - di massa, o
media, si rivelano strumenti di Potere quando falsificano la verità dei
fatti tramutandola in menzogna. Ciò avviene soprattutto nel caso delle
principali fonti di informazione popolari occidentali quali la
televisione e i giornali (la rete infatti, pur con le sue potenzialità
di luogo libero e gratuito accessibile a chiunque, non è usata, se non
in una minoranza di casi, in codesto senso informativo, ed anche quando
sia usata non lo è, perlopiù, con le dovute precauzioni), attraverso una
propaganda serrata che mira ad instillare nelle coscienze degli
individui determinate idee e giudizi, sostenuti da immagini e video
mostranti una realtà appositamente plasmata e mistificata, in modo da
procurare tra le moltitudini il più vasto consenso possibile alle
decisioni e azioni del Potere. Occorre analizzare i modi di questa
falsificazione.
Va detto innanzitutto che il Potere, e con tale termine si intende
coloro che incarnano la possibilità di decisione e azione, ovverosia
l'insieme dei potenti, possiede sempre un nemico che contrasta i suoi
piani, che ostacola i suoi progetti, che si oppone volontariamente o
meno ai suoi desideri; è proprio contro il nemico, interno od esterno,
che egli indirizza, dall'alto, il suo operare. Ma per farlo, nell'epoca
dell'opinione pubblica e della democrazia, ha bisogno di sostegno dal
basso, cosicché sia legittimato nei principi e giustificato negli esiti,
e pertanto mediante il controllo diretto o indiretto, forzoso o
ideologico dei mezzi di comunicazione edifica una elaborata macchina
sociale, con la quale impone la propria influenza sulle menti e sui
corpi degli uomini: il primo passo è allora l'identificazione del
nemico.
In secondo luogo quello che è il nemico del Potere deve tramutarsi in
nemico dei cittadini, e quindi in minaccia vicina e concreta per loro.
Per far sorgere una minaccia del genere si pongono in causa gli idoli
culturali che risultano essere più sentiti, vista la loro importanza,
negli animi dei singoli; è paradigmatico, ad esempio, il caso della
libertà, laddove il nemico viene accusato di sopprimere o di voler
sopprimere le libertà fondamentali, oppure il caso dell'umanità, laddove
invece egli viene accusato di perpetrare stragi, delitti sanguinari e
crudeltà insensate: il nemico interno diviene quindi un criminale e un
delinquente, il nemico esterno un dittatore e un terrorista. Questo è lo
stadio della demonizzazione del nemico.
Nel momento in cui la minaccia è divenuta vicina e concreta, al Potere
non resta altro da fare che vestirsi dell'abito di eroe e salvatore
degli idoli minacciati. L'azione contro il nemico diviene una faccenda
umanitaria, un dovere morale e civile assieme, un obbligo richiesto a
gran voce dalla maggioranza. Gli scopi appaiono come i più nobili ed
altruistici e, quand'anche l'egoismo di fondo emerga, la necessità
dell'intervento vince sul buon senso e su qualsiasi altra
considerazione. Si ha finalmente il via libera alla lotta poliziesca
contro la criminalità organizzata e la delinquenza comune, e alla lotta
militare contro la dittatura e il terrorismo; alla repressione e alla
guerra giusta, rispettivamente in vista dell'ordine e dell'esportazione
della democrazia; alla restaurazione della legalità nazionale e
internazionale. L'operazione contro il nemico viene messa in atto.
A questo punto al Potere interessa sostenere la propria maschera per un
periodo che sia il più lungo possibile. Il secondo stadio del processo
viene reiterato nel tempo per rinnovare il consenso e mantenerlo su
livelli accettabili, così da non rischiare di dover interrompere le
operazioni prima del raggiungimento dei fini prefissati. La ripetizione
dell'illusione mediatica conclude la strategia.
Una volta compiuta la strategia non si ha più motivo di conservare la
menzogna agli occhi delle masse, e così la verità si erige lentamente
verso la superficie, facendosi sempre più chiara. La consapevolezza di
esser stati manipolati non sempre viene alla luce e non sempre è
accettata; ha comunque una durata molto breve: si prova infatti, in
questo caso, un senso di irritazione e di impotenza che svanisce in un
lasso di tempo più o meno limitato, quasi che si voglia, il più in
fretta possibile, cancellare dalla memoria l'accaduto in un meccanismo
psichico di autodifesa. Il Potere non fa che incoraggiare tale
andamento, eliminando ogni residuo e riferimento mediatici all'evento in
questione, sostituendo questi residui e riferimenti con differenti
argomenti e tematiche, e tenendo occupati i cervelli nell'elaborazione
di problematiche altre. Il risultato è qui l'oblio del passato recente,
dimodoché le moltitudini divengono nuovamente pronte ad essere
ingannate.
lunedì 3 dicembre 2012
Destrudo ...
Violenza collettiva e antidoti statali
Che
vi sia un istinto di morte operante a fianco del più evidente istinto
di vita, e forse proprio in funzione di questo, è un dato di fatto
innegabile, di cui si trovano esempi quantomai numerosi e lampanti nei
fenomeni sociali. Che ciò sia un problema politico, di quella politica
che non si rifiuta di amministrare la vita collettiva in tutti i suoi
aspetti molteplici ed anche in quelli che sembrano non riguardarla da
vicino, è cosa che non si deve fare a meno di rimarcare e su cui non si
può non insistere, tanto è importante.
Tra
gli accadimenti in cui è celato il desiderio di morte, che si rivolge
contro gli altri prima di tutto, ma anche contro sé stessi se nell'atto
precedente si è bloccati da una sorta di pudore o timore morale, vanno
citati quelli che risultano essere i più eclatanti e che si verificano a livello della vita associata: il bullismo, la violenza negli stadi e la
violenza di piazza. In tutti e tre questi fenomeni la morte si esprime
come agressività cieca che vuole essere sfogata, e che, se non fosse per
le limitazioni concrete che fanno da ostacolo, si risolverebbe
addirittura nell'annientamento.
Nel
bullismo, manifestazione propriamente giovanile, si ha un raggruppamento
di individui che usano la propria forza per soggiogare individui più
deboli, senza alcuna motivazione o causa effettiva. L'aggressione, che è
psichica e fisica assieme, non avviene per difesa da un pericolo, né
per prevenzione a seguito di una minaccia, ma si mostra come
sostanzialmente gratuita. Qui, attraverso un avvenimento pretestuoso, si
mira semplicemente a estrinsecare una volontà di dominio sottomettendo
l'altro al proprio volere fino a danneggiarlo nella sua integrità.
Questa dimostrazione di violenza autoritaria finisce per fornire un
esempio di vita onorevole sia per i maschi, i quali sogliono imitarla
nel desiderio di conquistarsi rispetto e considerazione, sia per le
femmine, che sembrano prediligere i tipi del genere nella scelta del
partner. Un'educazione siffatta non può che tramutarsi nel culto della
forza bruta, il quale, se mantenuto anche in età adulta, si presenta
come una minaccia per l'ordine sociale.
Negli
scontri verbali e maneschi che avvengono negli stadi durante i giochi
sportivi, tra le tifoserie opposte e tra queste e le forze dell'ordine,
si amplia il numero degli individui interessati. Anche in questo caso le
motivazioni e le cause si mostrano come dei pretesti irragionevoli per
trarre fuori da sé una tensione accumulata. La violenza è
indiscriminata, in quanto le distinzioni settarie su cui si applica non
hanno nulla di logico; è come se un demone si impossessasse uno ad uno
dei componenti della folla portandoli alla follia, in un contagio
difficilmente arrestabile e che coinvolge tutte le parti protagoniste. A
farne le spese è l'immagine di una nazione, che diviene preda degli
altrui giudizi di inciviltà, di fronte al resto del mondo e anche di
fronte a sé stessa, ovvero alla propria cittadinanza.
Negli
avvenimenti conflittuali che riguardano le manifestazioni di piazza,
ancora tra cittadini di diverse fazioni e tra questi e le forze di
polizia, il coinvolgimento della politica è maggiormente visibile; anzi,
al contrario delle due forme precedenti questa forma di espressione
violenta ha delle motivazioni e delle cause generali ponderate. Eppure,
nonostante ciò, e nonostante l'utilità sociale a cui codesto tipo di
violenza si piega (su tale affermazione, che la violenza di piazza
possieda un'utilità sociale, certamente in molti non saranno d'accordo,
ma non sono io, in realtà, a sostenere questa posizione azzardata: è la
storia stessa con i suoi eventi, piuttosto, a sostenerla), il solo fatto
che vi sia un'esigenza popolare di manifestare il proprio dissenso nei
confronti dell'autorità statale è un problema, giacché dimostra la
presenza di un'insofferenza diffusa tra le moltitudini soggette al
potere.
Ora, il compito di una
politica assennata non è quello di reprimere le espressioni sociali
deleterie una volta sorte - così infatti il problema non viene affatto
risolto - bensì quello di prevenire il loro prodursi; se ciò non avviene
la politica non può essere detta politica sana, perché ne va del
mantenimento dell'ordine generale. Alla radice della violenza
sconsiderata degli atti di bullismo, degli scontri negli stadi, degli
scontri di piazza e di qualsiasi altro avvenimento del genere, sta
sempre un malessere interiore del singolo, di stampo prettamente
nichilistico, derivato da condizioni sociali disagiate (dallo stato di
povertà familiare al vivere in un ambiente malfamato; dall'assenza o
disinteresse dei genitori all'influenza delle cattive compagnie, e così
via dicendo): se ciò è vero, allora eliminando questo disagio profondo
si preverrebbe anche l'insorgere della violenza mortifera. Ma il
malessere sociale non può essere eliminato se non in un modo: attraverso
l'assistenza statale rivolgentesi a tutti quei casi speciali che, in
quanto tali, fuoriescono dalla norma dell'esperienza vissuta ordinaria,
in modo da annullarne il potenziale negativo mediante programmi mirati
al riempimento delle mancanze economiche, affettive e valoriali.
venerdì 9 novembre 2012
Rinascita ...
Immoralità contemporanea e recupero dell'etica antica
Mai come oggi si mostra come urgente una rifondazione etica nell'ambito
sociale, e tale esigenza si intravede a tutti i livelli: nelle
istituzioni politiche, economiche, religiose, giuridiche, eccetera.
Eppure un'iniziativa del genere non può che venire dall'alto, in un
movimento che procede dagli educatori agli educati, dai maestri agli
allievi. La coscienza dell'individuo si trova infatti ad essere
inevitabilmente plasmata dalla comunità circostante, cosicché una
comunità immorale genererà necessariamente nel suo grembo un individuo
immorale, il quale, insieme agli altri individui, andrà poi a formare il
corpo collettivo corrompendolo a sua volta, in un circolo vizioso
inarrestabile. La società odierna non è che l'esemplificazione di
codesto processo, laddove in ogni mestiere, da quello di imprenditore o
di banchiere a quello di avvocato o di governante, da quello di operaio o
di impiegato a quello di artigiano o di contadino, e poi in quello di medico, di giornalista, e così via, si
mostra evidente la tendenza a perseguire esclusivamente il proprio
vantaggio privato, non curandosi minimamente di armonizzarlo con il
vantaggio privato altrui, come se non vivessimo in un raggruppamento
ordinato, il cui principio fondamentale è il rispetto vicendevole e la
cooperazione di tutti all'insieme generale, quanto piuttosto in un
novello "stato di natura" in cui viga un'aspra competizione dei singoli,
in una gara a calpestare i diritti dell'altro per non dover subire noi
stessi la medesima sorte. Dov'è mai, allora, quella sicurezza che deriva
dal quieto vivere e che ciascun uomo certamente auspica, se ognuno
opera, chi per scelta intenzionale (ovverosia costretto da agenti
interni), chi senza intenzione (perché costretto, invece, da agenti
esterni), in direzione del sopruso e della sopraffazione? Ristabilire
una sana convivenza: questo si delinea come uno dei compiti della
politica contemporanea.
Sana convivenza è una convivenza in cui il conflitto, pur presente, non
intacca il benessere dell'esistenza altrui. Ciò può darsi solamente
ponendo solide basi sulle quali edificare l'armonia sociale, oggi
perduta a causa della compiuta demolizione della morale cristiana, la
quale, mediante le sue massime condivise ("ama il prossimo tuo come te
stesso"; "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te"),
assicurava, in Occidente, un controllo civico sulle coscienze, tenendo a
bada l'insorgenza di eventuali istinti aggressivi antisociali. Se tale
morale è oramai impotente, a seguito dei processi di secolarizzazione,
ecco che lo Stato, fosse anche corrotto, deve farsi carico
dell'imposizione di un'etica laica, che si fondi, alla maniera
dell'etica greco-romana, sull'equivalenza tra virtù, intesa come atto
buono e giusto, e felicità, intesa come condizione di appagamento
interiore, e deve farlo mediante tutti i mezzi coercitivi a sua
disposizione, a partire dal martellamento mediaco e dall'istruzione dei
giovani; non vi è altra soluzione per estirpare l'egoismo insano, se non
questa. Dopo che ciò sia avvenuto, la società tornerà a nutrire
generazioni di individui puri, capaci cioè di discernere il bene dal
male (non esclusivamente il proprio bene, ma anche e soprattutto il bene
collettivo) a partire da principi morali razionali: essi giungeranno
infine a comporre una comunità altrettanto pura, bloccando e invertendo
quel circolo vizioso che è uno dei più grandi mali del nostro tempo.
lunedì 1 ottobre 2012
Global ...
Nazionalismo e mondialismo: problemi e prospettive
Nel mondo occidentale permangono residui di nazionalismo, sebbene lo
Stato-nazione non esista più da decenni, smantellato dai processi di
globalizzazione. In particolare, tali residui si ritrovano
nell'ideologia di destra, nella mentalità degli eserciti, e nei desideri
di rivalsa dei paesi distrutti od oppressi.
Nel primo caso, si manifesta l'incapacità di determinate fazioni
politiche di comprendere e accettare il necessario andamento temporale
della società, con tutti i suoi portati benigni e maligni. Non a caso,
la parola d'ordine di queste fazioni si esprime in una volontà di
conservazione dell'assetto attuale nei suoi aspetti più tradizionali, e,
nei casi più estremi, in una volontà di reazione al nuovo che avanza,
ovvero in un ritorno a un passato che non può più darsi: non è
possibile, infatti, cancellare gli eventi accaduti e le tendenze in
atto, né è possibile portare indietro la ruota della storia.
Nel secondo caso, si manifesta un'ideologica divinizzazione della patria
nazionale come spazio di un determinato popolo, spazio che va difeso a
ogni costo per la salvaguardia dell'identità del popolo stesso. L'ideale
di una patria-nazione è prettamente ottocentesco, e viene ancora oggi
instillato nelle coscienze dei soldati attraverso una ferrea educazione
(o disciplinamento, se si preferisce); senonché esso si mostra come
un'idea vuota e astratta in assenza di un popolo unitario. Chiaramente,
ciò avviene perché gli uomini hanno bisogno di uno scopo che sia
abbastanza nobile e importante da convincerli, in nome di esso, a
sacrificare la propria vita in combattimento.
Nel terzo caso, si manifesta una conseguenza diretta dell'azione della
volontà di potenza dei maggiori Stati occidentali, i quali, nella loro
mancanza di rispetto verso tutto ciò che è altro da loro, e allo scopo
di acquistare/conquistare per sé ricchezza e potere, sono portati a
violare l'altrui diritto alla vita e all'autodeterminazione, ponendo la
propria mano violenta su quei paesi, e sui cittadini di quei paesi,
considerati inferiori o arretrati. Il risultato è la proliferazione,
all'interno di tali paesi, dell'odio nei confronti dei distruttori od
oppressori esterni, nonché l'emergere dell'esaltazione della propria
diversità e, quindi, la rinascita di una identità nazional-popolare in
funzione della liberazione.
Nonostante questi residui, la politica deve comprendere che l'idea di
nazione, così come quella di popolo e di patria, non ha più significato.
Oggi, la nazione fuoriesce dai confini nazionali per assumere i confini
continentali e recarsi ben oltre, sino ad assumere l'intera ampiezza
del globo terrestre. Qui il popolo è costituito da tutti i cittadini
nord-occidentali, e, in senso ancora più allargato, da tutti i cittadini
del mondo. Precisamente, l'Occidente e il Nord sono la nostra odierna
patria, ma il fine della globalizzazione deve essere quello di far
rientrare in questa idea anche l'Oriente e il Sud: così soltanto,
infatti, tutti i conflitti potranno essere finalmente sanati.
giovedì 6 settembre 2012
Guru ...
Stato occidentale e religioni orientali: aperture
La politica occidentale odierna resta legata alla concezione, oramai
superata nell'epoca della globalizzazione, di una "religione di Stato",
che in Europa e in Nord America significa preminenza del cristianesimo
nella sua forma ortodossa, cattolica o protestante. Ma se il compito
della politica è quello di praticare il buon governo e al contempo
assicurare il benessere ai cittadini, allora il superamento dei
nazionalismi religiosi diviene un atto doveroso e quantomai necessario.
La popolazione di uno Stato occidentale mostra, in primo luogo, una
tendenza ad abbracciare la religione primaria come conseguenza
dell'educazione dominante, e, in secondo luogo, una tendenza al
disincanto propria dei giovani delle nuove generazioni, tendenza che ha
come conseguenza la scelta di un indirizzo ateo o agnostico. Inoltre, si
può constatare la presenza di più o meno ampie minoranze di
appartenenti a fedi secondarie.
Ora, se la politica decide di favorire e sostenere una sola religione
sopra le altre, oltre a compiere un atto anacronistico, giacché in tal
modo viene ostacolato il pluralismo confessionale, essa non fa altro che
ridurre le possibilità di realizzazione del cittadino, il quale, se
nella sua ricerca del benessere non trova soddisfazione nei precetti
condivisi, finisce per non avere altri luoghi verso cui rivolgere la
propria spiritualità. Ciò significa che l'uomo occidentale permane
imprigionato nelle maglie del cristianesimo, oppure, al limite, delle
minoranze religiose più ampie, quali ad esempio l'islamismo.
Le religioni orientali restano perlopiù tagliate fuori da tale orizzonte
spirituale. Nondimeno, proprio codeste religioni affermano una pratica
peculiare che è una via estremamente efficace al benessere interiore: la
pratica della meditazione. Meditando, infatti, l'uomo rilassa il corpo e
la mente ed elimina le angosce quotidiane, migliorando il proprio stato
d'animo. Per questo motivo una politica seria, consapevole del proprio
ruolo sociale, dovrebbe impegnarsi nel promuovere iniziative volte ad
assecondare la diffusione di quelle religioni che, fondando la propria
attività sulla meditazione, risultano essere maggiormente propense alla
diffusione del benessere fra le moltitudini, ovverosia il buddismo,
l'induismo e simili.
venerdì 3 agosto 2012
Integrazione ...
Emarginazione e razzismo
La politica sociale degli Stati relativa alla popolazione romanì
costituisce l'esempio più lampante del fenomeno dell'emarginazione, così
come l'atteggiamento dei cittadini nei loro confronti si presenta come
il nec plus ultra del razzismo.
Da un lato, lo Stato raggruppa i gitani in luoghi determinati: i "campi
nomadi", sorta di ghetti molto spesso manchevoli dei servizi più
basilari, e in tal modo non fa che aumentare la probabilità che in tali
zone sorgano fenomeni di criminalità. D'altro lato, i cittadini, vittime
di un'ignoranza diffusa relativa alla cultura e allo stile di vita
zigani, e di un sospetto ancestrale proprio della natura umana quando si
trova di fronte a ciò che non conosce, non fanno che ostacolarne
l'integrazione, lasciando mano libera ai propri pregiudizi e alle proprie false credenze (la bestialità naturale, l'ostilità caratteristica verso il lavoro legale e la
vita sedentaria, l'irrettificabile cultura della sporcizia e del furto,
la consuetudine del rapimento dei bambini, eccetera) invece di
limitarne la portata, e condannando i loro atti senza domandarsi quali
possano essere le cause che stanno dietro ad essi e li giustificano. I
mezzi di comunicazione di massa, inoltre, nel loro ruolo di mediatori
tra la Politica e le moltitudini, sembrano veicolare e addirittura
istigare una forma di odio, esacerbando una situazione già, di per sé,
di difficile soluzione. Il risultato estremo di ciò è una legittimazione
della violenza contro gli zingari, i quali reagiscono a questo
accanimento mediante l'indifferenza o l'avversione.
Ora, posto che tutti i cambiamenti procedono dall'alto e non dal basso, è
la Politica a dover compiere il primo passo per tramutare l'inimicizia
in amicizia. Inanzitutto, occorre portare i gitani tra la popolazione,
giacché solo un contatto assiduo può rompere le barriere psichiche che
vengono edificate dagli uni e dagli altri. In secondo luogo, occorre
donare loro la possibilità di entrare concretamente a
far parte della comunità in cui si trovano a vivere, e ciò può darsi
soltanto attraverso la cittadinanza, la casa e il lavoro, ovvero i beni
fondamentali che a noi sono assicurati di diritto e a loro sono, il più
delle volte, interdetti. Infine, è necessario che i media si impegnino ad
approfondire e a diffondere la conoscenza delle tradizioni zigane,
per mostrare tutto ciò che di bello appartiene a queste etnie. Lo scopo
a cui tendere è l'eliminazione dell'idiozia statale e sociale che ha
prodotto e produce l'assurdità dell'emarginazione e del razzismo, con i
conseguenti effetti nocivi a livello civile.
sabato 7 luglio 2012
Prigionia ...
Dovere civico, imperativo morale
La politica opera sempre una selezione di valori. La politica
contemporanea pone gran parte della spiritualità e della cultura come
non-valori.
Sembra, in effetti, che non vi sia spazio, all'interno della società,
per i sentimenti e le passioni, così come per le idee e i pensieri; che
sia in atto una sorta repressione dei desideri e della volontà; che
immaginazione e fantasia abbiano perduto la loro serietà, e che
l'intelletto sia stato abbandonato; che la forza dell'inconscio sia
demonizzata e fuggita. Tutto ciò che fa la potenza dell'uomo è, in
generale, emarginato, escluso o combattuto.
Questa crociata contro lo spirito si rivolge, di conseguenza, anche
contro le manifestazioni dello spirito: l'arte è bandita e sostituita da
una pseudo-arte di tipo commerciale, la filosofia è racchiusa
all'interno della categoria del non-senso, la scienza, con le sue
importanti scoperte teoretiche, è opportunamente celata, la religione è
abbassata al rango di mera superstizione, la politica stessa come
attività tradizionale di governo ha perduto la fiducia delle
moltitudini, la storia è caduta nella dimenticanza.
L'unica facoltà apprezzata, e sopravvalutata, è la ragione;
l'unica attività che abbia mantenuto importanza è la tecnica. Ma che
cosa è mai la facoltà razionale se priva delle altre facoltà mentali? Un
procedere pedante che non tiene conto di ciò che è veramente
essenziale. E che cos'è la prassi della tecnica senza l'influenza
benefica di una visione di pensiero? Una illimitata pratica di dominio e
di manipolazione sugli uomini e sulle cose.
Pertanto, ogni uomo ha il dovere civico e l'imperativo morale di
coltivare lo spirito e diffondere la cultura dello spirito. Soltanto in
questo modo, infatti, ci si sottrae alle prigioni del disciplinamento e,
al contempo, si offre la possibilità e l'occasione all'altro di
sottrarsi anch'egli a una tale prigionia asfissiante.
sabato 19 maggio 2012
Welfare ...
Libertà, ricchezza, assistenza
La libertà politica occidentale si delinea come libertà di pensiero, di
espressione e di azione nei limiti della legge, nonché come
partecipazione in massa alla Cosa pubblica attraverso il voto. Eppure,
il Potere occidentale controlla le coscienze pensanti, esprimenti e
agenti, oltre alle modalità di partecipazione politica, e non ha quindi
bisogno di impedire nulla se non quelle piccole deviazioni che farebbero
tremare le proprie fondamenta, rischiando di farle crollare.
Ora, l'Occidente va fiero della propria libertà e la contrappone
orgogliosamente alla minore libertà concessa, invece, dai paesi
non-occidentali. Eppure in molti paesi non-occidentali, dove non vi è
cultura libertaria, il grado di benessere sociale della popolazione pare
essere di gran lunga più alto di quello presente nei pesi d'Occidente
(si pensi alla Cuba di Castro, dove neppure vi è una elevata prosperità
economica, o alla Libia di Gheddafi, regimi in cui la libertà politica è
fortemente limitata dall'autorità sovrana). Ci si deve chiedere,
pertanto, se la libertà sia realmente un fattore primario per la
vivibilità di una nazione, o se sia invece qualche altro fattore a
essere essenziale.
Posto che un occidentale, abituato com'è alla propria libertà, che
seppure illusoria appare alquanto vasta, non sopporterebbe mai di vivere
all'interno di uno Stato autoritario, ciò che può essere considerato
imprescindibile per il benessere sociale e per la vivibilità di una
nazione non è la libertà politica, né tantomeno la ricchezza economica
(il che, si badi bene, non significa che libertà e ricchezza non siano
importanti), quanto piuttosto l'assistenza statale: gli Stati in cui il Welfare è più presente sono quelli in cui le moltitudini si trovano a essere maggiormente soddisfatte e gratificate.
Uno Stato assistenziale forte ed efficente significa istruzione e sanità
di livello assicurate per tutti e gratuite, accesso generalizzato alle
risorse culturali, aiuti economici ai cittadini nell'ambito dello
studio, della maternità e del lavoro, sussidi per la disoccupazione e
per le famiglia indigenti, pensioni e salari adeguati al costo della
vita, cura degli anziani, degli invalidi e dei malati, difesa
dell'ambiente naturale. Quando vi siano questi impegni da parte
dell'autorità, la persona sarà appagata e disposta anche a sopportare
un grado più alto di schiavitù, o un grado più alto di povertà.
Il pieno Stato sociale deve essere dunque l'obiettivo primario di ogni
Stato, giacché lo Stato è prima di tutto un servizio donato alla
collettività. Tale modello, unito a una libertà e a una ricchezza
congrue, è l'ideale statale perfetto, in atto oggi esclusivamente nei
paesi nordici della Svezia e della Norvegia.
giovedì 17 maggio 2012
Educazione ...
Disciplinamento e repressione
Ogni uomo è ciò che viene educato a essere. La coscienza degli individui
è infatti in principio una massa informe e malleabile, che assume una
forma definita durante i primi dieci anni di vita, e giunge a
solidificarsi una volta trascorsi i venti anni di età. Precisamente,
l'educazione edifica all'interno della mente umana la coscienza morale.
La coscienza morale è l'unico aspetto propriamente artificiale della
psiche, in quanto è prodotta dall'uomo e non deriva necessariamente
dalla natura intrinseca o dalla realtà esteriore. L'educazione è, in
questo senso, un fatto politico, o meglio, bio-politico.
L'educazione che forma le coscienze degli individui occidentali è
marcata a fuoco da due dottrine fondamentali, ovverosia il Cristianesimo
e il Capitalismo, la cui azione congiunta genera l'uomo borghese. A
tale tipologia di uomo appartengono la stragrande maggioranza delle
persone e, precisamente, coloro che fanno parte della cosiddetta "classe
media", categoria trasversale ormai slegata dalle distinzioni di
mestiere e di censo, che ha colonizzato la quasi totalità dei cittadini
appartenenti alla società civile.
L'effetto principale dell'educazione cristiana è la repressione dei
desideri "carnali" procedenti dall'istinto. L'istinto, che nell'uomo
diviene desiderio, è la voce della natura, ma la natura è male, giacché
porta l'uomo alla perdizione. Peccato e desiderio si equivalgono, e
viene così sancita l'interdizione dell'appagamento. Se è vero che un
animo appagato è un animo sereno (e tale verità è empiricamente
provabile), allora quel che viene proibita è la vita serena, che
coincide con il benessere, mentre, invece, viene valorizzata la vita
ascetica e rinunciataria, segnata dal sacrificio e dall'afflizione che
consegue al sacrificio. Il risultato di tutto ciò è la coscienza
inibita, la quale è coscienza infelice perché incapace di vivere il
piacere carnale.
L'effetto principale dell'educazione capitalistica è la repressione dei
desideri "spirituali" procedenti dalla ragione, la quale sublima
l'energia dei desideri carnali indirizzandola verso oggetti e scopi di
altro livello. La ragione è la voce del pensiero, ma il pensiero è male,
giacché si presenta come astrazione, forma puramente teoretica, quindi
materialmente inutile e inefficace. Si ha allora, anche in questo
ambito, l'interdizione dell'appagamento, della serenità, del benessere
in genere, e un obbligo a scegliere esclusivamente le cose utili ed
efficaci, che sono però inessenziali. Il risultato di tutto ciò è la
coscienza calcolatrice, la quale è, anch'essa, coscienza infelice perché
incapace di abbandonarsi al piacere spirituale.
Paradossalmente, i principi del Capitalismo rinnegano quelli del
Cristianesimo, e il Cristianesimo, nell'era del Capitalismo, sopravvive
soltanto come uno spettro atavico (soprattutto all'interno della psiche
femminile). Anche la pratica religiosa e il desiderio di Dio sono
infatti catalogati tra le cose inutili e inefficaci, e ciò significa che
l'uomo borghese ha allentato le corde che tenevano legata la sua mano,
ma ha perduto, inoltre, ciò che di buono v'era nella dedizione ai valori
ultraterreni, ossia l'anelito spirituale.
Rifondare l'educazione in favore del desiderio deve essere l'obiettivo
di ogni (bio)politica che voglia, in futuro, generare un esemplare di
uomo più sano, che sia, dunque, coscientemente felice.
martedì 15 maggio 2012
Thanatos ...
Questione bellica
La storia è maestra, e gli eventi
storici dicono molto riguardo alla natura degli uomini e delle società.
Se ciò è vero, allora il più grande insegnamento che si può trarre dal
passato è: la guerra è necessaria alla politica.
Tutte
le civiltà, antiche o moderne, arretrate o sviluppate che fossero,
hanno fatto uso della guerra; questo è un dato di fatto. Ciò è avvenuto
in quanto la scelta della guerra è non soltanto ineliminabile, ma
addirittura obbligata per la sopravvivenza del consorzio umano. Persino
l'instaurazione della pace richiede interventi di
guerra: la pace infatti è qualcosa che ha a che vedere con la politica
interna
di uno Stato, ma per ottenerla e mantenerla c'è bisogno di una forza
militare che
sia volta all'esterno. La politica estera è di per sé stessa una
politica di aggressione,
giacché i propri confini e i propri interessi vanno difesi, e spesso
l'attacco è la miglior
difesa. Si mostra quindi chiaramente, per chi sappia imparare dagli
accadimenti, l'utopia dei pacifisti, i quali desiderano un mondo che sia
privo di guerre. A rigore, solamente una repubblica mondiale, che
distruggesse i confini e che unificasse gli interessi molteplici
appianando le differenze specifiche, potrebbe dire di non aver alcun
bisogno della guerra come strumento politico, non avendo nemici esterni
verso il quale dirigerla; ma anche in codesto caso, per costituire una
tale repubblica universale non vi sarebbe altro mezzo che la violenza
delle armi, sola in grado di vincere le resistenze particolari.
D'altronde,
la natura umana in genere mostra uno spiccato desiderio di morte che si
manifesta come aggressività nei confronti di sé stessi e soprattutto
degli altri. Questa tendenza, facente parte, nel bene e nel male,
dell'essenza dell'uomo, può essere sicuramente limitata e sublimata,
eppure giammai contrastata. La questione allora non è l'eliminazione
della guerra, evidentemente impossibile, bensì la riforma della guerra
in modo da renderla maggiormente "umana".
Una
tale esigenza si manifesta soprattutto nell'epoca contemporanea, dove
la guerra, un tempo attività nobile, ha assunto un aspetto meschino. La
guerra odierna, oltre a essere una guerra impari, in quanto viene
rivolta in esclusivo contro popolazioni nettamente più deboli, è una
guerra dannosa, giacché distrugge città e monumenti, e uccide civili
inermi (chiaramente, i motivi che spingono gli Stati, e prevalentemente
gli Stati occidentali, a muovere guerre così deleterie sono economici e
politici). La guerra antica, al contrario, si mostrava quantomai
onorevole: gli scontri avvenivano in campo aperto e in mare aperto,
perlopiù lontano dai centri abitati, così da riguardare solamente i
soldati; non vi erano strumenti di distruzione portentosi e ignobili,
come lo sono le mine anti-uomo, le bombe aeree e le armi chimiche e
atomiche; le modalità della battaglia facevano sì che il valore dei
soldati e dei condottieri prevalesse su ogni altro aspetto; le cause e
gli scopi del conflitto, nonché i suoi risultati, erano del tutto
trasparenti allo sguardo dell'opinione pubblica, mai mascherati dalla
menzogna; infine, vi era un'etica guerresca improntata sul coraggio,
sulla lealtà ai patti, sull'abilità e sulla forza effettive, sulla sana
rivalità tra i contendenti. La guerra odierna è, invece, sempre una
guerra sporca, ipocrita, colma di odio, e vile.
Ci
si deve dunque impegnare per ottenere, in questo ambito, un ritorno
della legalità oggi abbandonata, guidato da più sani principi morali:
solo in tal modo si può infatti sperare di debellare gli orrori
indicibili che la guerra, così come si mostra nella nostra epoca, porta
inevitabilmente con sé. L'obiettivo della politica è allora donare di
nuovo dignità all'attività bellica sul modello di una gloria ormai
tramontata, ma che può certamente risorgere. In concreto, va perseguita l'abolizione onnilaterale delle armi
sopracitate; vanno inoltre separati nettamente i vari tipi di guerra a
seconda degli spazi in cui essa si svolge - guerra marittima, guerra
aerea e guerra terrena - impedendo che l'un tipo sconfini nell'altro
confondendosi con esso; quindi bisogna spostare l'azione della battaglia
nei luoghi deserti, non civilizzati e non popolati; e come ultimo e più
importante atto occorre istituire un organo sovranazionale che sia
garante, similmente alla NATO, della sicurezza mondiale, ma della quale
facciano parte, a differenza di quanto accade per la NATO, tutte le
nazioni del mondo, nessuna esclusa, e nella quale egual spazio e
influenza abbiano gli Stati non-occidentali rispetto a quelli
occidentali. Soltanto allora
la guerra potrà incominciare a vestirsi di un abito più umano.
venerdì 4 maggio 2012
Velocità ...
Recupero del tempo perduto
La società contemporanea ruba il nostro tempo, e conseguentemente l'essere umano percepisce un'intima mancanza.
La durata di una giornata è di ventiquattro ore, di cui otto si
esauriscono nel sonno. Delle sedici ore effettive di vita
concreta, la metà vengono spese nell'attività scolastica
(frequentazione delle lezioni e studio delle materie) o in quella
lavorativa, oppure in entrambe. Sottraendo oltre un'ora necessaria agli spostamenti giornalieri, un'ora per il consumo dei
pasti e un'altra ora almeno per la cura di sé e l'igiene, restano circa quattro ore in tutto di cosiddetto "tempo libero". Questo tempo è ciò che ci viene concesso per dedicarci a quelle attività che non
vengono considerate fondamentali dal senso comune, ma che sono
altrettanto essenziali delle precedenti per il mantenimento della salute
corporea e mentale: parlo del riposo e dei passatempi, dell'attività
sportiva, della coltivazione dell'amicizia e dell'amore, della compagnia familiare, della fruizione
e creazione di cultura.
Si ha sempre l'impressione di non aver tempo a sufficienza per fare
tutto ciò che ci si propone di fare; per soddisfare ogni proprio
desiderio. La vita è breve, si dice, come se ottant'anni non fossero
abbastanza, e come se la morte, pronta a interrompere il flusso
dell'esistenza, fosse a ogni momento imminente. Ciò che ne deriva è una
sensazione di angoscia, e un impaziente e precipitoso isterismo della
fretta che ci porta ad abbracciare la celerità frenetica. Angoscia e
frenesia significano sovraccarico delle energie e malessere perenne.
Una tale situazione invivibile può essere risolta dal singolo soltanto
attraverso una migliore organizzazione delle proprie giornate, per far
fuoriuscire da esse frammenti di tempo da riempire, o mediante
l'attività assolutamente rilassatrice della meditazione. Eppure
l'ambiente circostante, e in particolare il caotico ambiente cittadino,
tornerà inesorabilmente a divorare i nostri minuti preziosi,
richiamandoci alle esigenze quotidiane e ai doveri.
L'unica soluzione durevole sembra essere allora quella che procede dall'alto, e
che investe la sfera della politica: si deve incominciare a pensare di ridurre e comprimere le ore obbligatorie investite nell'attività
scolastica, in particolare quella universitaria, e, soprattutto, in quella lavorativa (precisamente, i sindacati dovrebbero premere per ottenere la riduzione della giornata lavorativa dalle 8 alle 6 ore), in modo da lasciare finalmente
spazio al tempo libero. Vi è, infatti, il bisogno impellente di una
rivalutazione della quiete e di un ritorno alla lentezza, affinché si
possa, come in un passato lontano, dilatare di nuovo il tempo vissuto.
martedì 17 aprile 2012
Allarme ...
Rifiuto del nucleare
- Aprile 1986: disastro di Cernobyl, Ucraina.
- Marzo 2011: disastro di Fukushima, Giappone.
I due maggiori incidenti nucleari della storia (intervallati da numerosi, seppur taciuti, incidenti minori, più o meno gravi, verificantesi ogni anno in maniera regolare nelle centrali e nei siti di stoccaggio) sono qui a insegnarci la percolosità di questo tipo di energia.
Gli Stati hanno indirizzato la propria politica energetica in direzione
del nucleare, e ne hanno subito le conseguenze. Nulla, infatti, vi è di
più pericoloso in natura: una esposizione prolungata ai fenomeni
radioattivi ha sull'organismo effetti nefasti che vanno
dall'invecchiamento precoce, correlato alla quantità di radiazioni
assorbite, alle patologie tumorali, dal malfunzionamento degli apparati
corporei ai danni cellulari, dalla sterilità all'emergere di malattie
leucemiche, fino alle mutazioni genetiche, peraltro ereditarie, e alle
malformazioni somatiche. Inoltre, le radiazioni si diffondono nei luoghi
naturali, inquinando l'atmosfera, le acque e i terreni. Nonostante i
passi avanti compiuti in materia di sicurezza, va compreso che le
centrali nucleari, essendo gestite da uomini, permangono sempre nella
possibilità di un fatale errore umano, ed essendo costruite in territori
naturali, subiscono costantemente la minaccia di danneggiamenti alle
strutture causati da catastrofi naturali.
Il controllo, nel maneggiare un'energia così pericolosa, è essenziale,
ma la casualità degli accadimenti non ci permette di possedere un pieno
controllo delle situazioni. I rischi sulla nostra salute sono maggiori
dei benefici ottenuti in termini economici ed energetici: chi potrebbe
affermare il contrario? La vita nostra e dei nostri figli conta,
certamente, più di qualsiasi profitto materiale, eppure la prospettiva
di quest'ultimo è il motivo primario dell'aver abbracciato una
politica energetica siffatta.
Ai costi biologici si aggiungono però anche quelli economici. L'energia
nucleare non risulta più essere conveniente in termini di spesa, giacché
per la costruzione e il mantenimento delle centrali si è costretti all'esborso di cifre esorbitanti; oltre a ciò, la loro operatività può essere mantenuta solamente per pochi decenni, in quanto i materiali che le
compongono, esposti a radiazioni, alterano la propria composizione
chimica perdendo col tempo caratteristiche essenziali, cosicché vi è la
necessità dello smantellamento, anch'esso dispendioso. Si ha, di fatto,
un investimento continuo destinato alla perdita.
Riflettendo poi sulla rarità dell'Uranio, elemento indispensabile senza
il quale la produzione di energia nucleare non può avvenire (secondo i
calcoli esso si esaurirà entro trent'anni circa, e ciò fa sì che anche
il prezzo di tale elemento, non rinnovabile, aumenti), e sul problema
irrisolto e probabilmente irrisolvibile dello smaltimento delle scorie
radioattive (la radioattività di questi scarti, altamente tossici,
prodotti dalla combustione nucleare, può sussistere anche per secoli, e
attualmente non si conosce alcun metodo sicuro di isolamento, tantomeno
di eliminazione), si giunge a un'unica decisione ragionevole: il secco
no al nucleare.
Tale tipo di energia può infatti essere sostituito dalle energie
rinnovabili, ovvero idroelettrico, marino (o oceanico, o pelagico), eolico, solare, geotermico e
biomasse; energie pressoché pulite, sicure e del tutto inesauribili, e
questa è, difatti, la via che molti Stati d'Europa stanno finalmente
intraprendendo con coscienza.
giovedì 12 aprile 2012
Guerra ...
Res privata contra res publica
Due pensieri politici si contendono il globo terreste: da un lato il
capitalismo liberale di stampo democratico, dall'altro il capitalismo
socialista di stampo totalitario; il primo, affermante l'individualismo
dei diritti/doveri, si costituisce attorno a una visione privatistica
del Potere; il secondo, affermante il comunitarismo dei valori, si fonda
sulla pubblicità di questo Potere.
Le potenze "occidentali", in senso geopolitico e non geografico - parlo
di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Unione Europea, Israele e
Giappone - sono il luogo del dominio privato: qui autorità e sovranità
sono concentrate non nell'apparato statale, ridotto al minimo
dell'estensione e della capacità di controllo, bensì in gruppi di
interesse elitari disgiunti dallo Stato, il quale è da loro asservito o
addirittura sostituito. Le potenze non-occidentali - Brasile, Russia,
Cina, India, Turchia e Iran, solo per citare i maggiori - sono il luogo
del dominio pubblico: qui autorità e sovranità appartengono, di fatto,
allo Stato onnipervadente e onnipotente, e i gruppi di interesse privato
sono asserviti o sostituiti dall'apparato statale. Sotto gli occhi di
tutti, è in atto una guerra di natura mediatica, economica e militare
per l'egemonia.
Dove schierarsi? Opacità e ipocrisia mascherano l'azione politica
nell'ambito del privato, mentre l'azione politica pubblica è, nel bene
come nel male, trasparente e schietta (la prima infatti, essendo
esclusiva ed elitaria, mal si accorda con la democraticità del Potere, e
dunque ha bisogno di porre di fronte al proprio viso una maschera, di
mostrare un'immagine artificiosa di sé, di farsi simulacro agli occhi
dei cittadini; la seconda invece si mostra sempre per quello che è,
democratica se democratica, totalitaria se totalitaria). La libertà
occidentale è certo una libertà più ampia rispetto a quella concessa
dagli Stati non-occidentali, e nondimeno è una libertà apparente e
illusoria, giacché gli odierni metodi biopolitici non mancano di imporre
alla base il proprio marchio indelebile sulle coscienze dei singoli, e
di emarginare e perseguitare coloro che, per un difetto di educazione o
di dominio, si trovano a fuoriuscire da determinati limiti prestabiliti;
d'altronde nei luoghi in cui la libertà viene limitata più o meno
fortemente una biopolitica efficace in grado più alto, proprio a causa
del minor grado di democraticità, non permette affatto l'insorgere di
atteggiamenti potenzialmente eversivi, in quanto li previene o li pone
sotto un controllo ferreo, e così riesce, paradossalmente, a evitare il
ricorso alla repressione violenta più di quanto riesca a fare
l'Occidente liberale. La cultura dei valori, inoltre, non garantisce
minore tutela del cittadino rispetto alla cultura dei diritti;
tutt'altro: il valore è un elemento più solido, oggettivo e sicuro del
diritto, il quale invece si presenta come maggiormente fluido,
soggettivo e precario (in altre parole, è di gran lunga più difficile
violare un valore condiviso, anche se non iscritto in legge, piuttosto
che un diritto condiviso e legittimato). Il cittadino ha possibilità e
mezzi per agire solo ed esclusivamente nell'ambito pubblico, sia pro
oppure contro di esso, non in quello privato, che risulta essere quindi,
al contrario dell'altro, immodificabile di principio. Infine,
l'individuo senza comunità è abbandonato all'angoscia e alla
disperazione della solitudine sociale, mentre invece la comunità
assicura alle individualità quella protezione sociale a loro necessaria
per far sì che esse siano immuni da angoscia e disperazione, e non
cadano vittima dell'abbandono e della solitudine conseguente.
Il disonesto e impudico Occidente governa, ma i paesi repubblicani
avanzano minacciando tale governo, mai come oggi traballante; esso,
infatti, per causa del suo fallimento economico, perde gradualmente il
consenso delle moltitudini, e ciò lo rende fragile. Questi paesi,
sull'onda del successo economico, hanno viceversa acquisito la forza
necessaria per competere a pari livello, ma per poter rubare lo scettro
devono fare ancora un passo avanti, che non è tanto economico quanto,
piuttosto, politico: essi devono acquisire una "coscienza di classe",
unendo le proprie energie, ora separate tra loro o addirittura in
conflitto, e accordandole per poi dirigerle in una medesima direzione.
Se ciò accadrà, allora sarà l'avvento di una nuova epoca storica.
mercoledì 4 aprile 2012
Peccato ...
Negazione e affermazione
L'inibizione amorosa, di cui sono vittima in parte gli uomini, ma
soprattutto le donne, intimamente più sensibili alle forme del
disciplinamento, è strettamente legata all'educazione
cristiano-cattolica e, pertanto, la politica ecclesiastica è una
politica di inibizione (la Chiesa, infatti, è un'istituzione, e come
tale ha una determinata
influenza, più o meno ampia, sulle masse; perciò si può dire che essa
attui una vera e propria "politica"). Ciò che viene inibito è il
desiderio sessuale, colonna portante di ogni relazione amorosa tra
maschio e femmina.
Nelle Sacre Scritture, l'atto sessuale vaginale è condannato quando sia
consumato al di fuori del matrimonio (oggi tale assunto, non più valido,
è stato sostituito per ovvie ragioni di anacronismo, e la condanna cade
quindi sul rapporto consumato al di fuori del fidanzamento, cioè al di
fuori della relazione nata da un'intenzione di serietà e longevità), e
quando si delinei come adulterio, ovvero come violazione della fedeltà
coniugale. L'atto sessuale orale, quello anale e quello manuale, quest'ultimo anche rivolto al proprio corpo nel caso dell'autoerotismo, sono deplorati in quanto non materialmente
utili, ossia non efficaci in vista della riproduzione; l'aura di
sacralità che circonda l'atto riproduttivo non è presente, invece,
attorno all'atto inutile e inefficace che ha come solo fine il
piacere fisico-psichico. Infine, la relazione omosessuale è considerata
contro-natura, nonostante essa sia, da sempre, una delle destinazioni
possibili della libido umana.
Tutti questi atti vengono catalogati sommariamente come impuri e
chiamati col nome di fornicazione: "non fornicare" (o "non commettere
atti impuri"), e: "non desiderare la donna d'altri", ammoniscono due dei
comandamenti donati da Dio al popolo ebraico ed elencati nel libro
dell'Esodo, mentre nella Prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso,
principale codificatore e diffusore della religione cristiano-cattolica,
afferma eloquentemente che: "... né fornicatori [...], né adùlteri, né
effemminati, né sodomiti [...] erediteranno il regno di Dio". L'assunto è
questo: l'atto sessuale come tale e il piacere che ne deriva, venendo
dalla carne, sono peccato.
Vi è, poi, un accento posto sulla castità e sulla verginità come
prerogative di santità: ancora nella Prima lettera ai Corinzi si legge:
"... è cosa buona per l'uomo non toccare donna", e: "... chi non è
sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al
Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come
possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata,
come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa
nel corpo e nello spirito; la donna sposata si preoccupa invece delle
cose del mondo, come possa piacere al marito"; da qui la rinuncia
all'amore carnale da parte dei ministri di Cristo.
Si vede dunque come un'educazione religiosa di questo tipo limiti, di
fatto, l'esperienza amorosa, vietando alcune sue manifestazioni che
nulla hanno di blasfemo, e impedendo di viverne integralmente i bei
giochi e le declinazioni. Eppure, solo una relazione che sia
completamente libera da complessi inibitori di natura sessuale può
generare, per il maschio come per la femmina, un sentimento di piena
soddisfazione, e la felicità non può prescindere dalla soddisfazione del
desiderio erotico, che è desiderio fondamentale. Se ciò avviene, si
hanno il senso di colpa e l'angoscia, la vergogna e il disgusto, il
turbamento dell'animo di chi non è in pace con sé stesso; in definitiva,
la reale sofferenza spirituale.
Di conseguenza, il vero peccato sta, propriamente, nell'inibizione dell'eros, la quale è negazione del piacere, principio benefico, e non invece nella libertà
sessuale, che è, al contrario, affermazione salutare di quello.
giovedì 29 marzo 2012
Crisi ...
Malattia, veleno e medicina
La crisi economica attanaglia l'Europa unita, e tale Unione rischia di collassare. I paesi più deboli, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna vedono di fronte a loro, più o meno lontano, lo spettro del fallimento (default), e il rischio è quello di un "effetto domino"; di un contagio che raggiungerebbe anche i paesi economicamente più sani. La risposta delle élites sovrane, raccolte attorno ai due organi fondamentali di governo, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea, è stata questa: misure di austerità (austerity), liberalizzazioni-privatizzazioni e riforma del mercato del lavoro.
L'austerità
è l'aumento programmato delle tasse e delle imposte, la diminuzione di
stipendi e pensioni, il taglio generalizzato della spesa pubblica. La
liberalizzazione è intesa come la cancellazione delle restrizioni di
mercato per le categorie di mestiere, in modo da istituire un sistema di
concorrenza aperto anche ai non appartenenti a tali categorie; la
conseguenza più ovvia è l'accesso dei privati a quella produzione di
beni e servizi che prima gli era preclusa, per causa della tutela
statale che cautelava e preservava i gruppi chiusi. Chiaramente,
l'obiettivo è uno soltanto: favorire la creazione di monopoli privati e
quindi la privatizzazione dei settori lavorativi non ancora
privatizzati. La privatizzazione si definisce come lo spostamento della
proprietà di un ente o di un'impresa dal controllo statale a quello
privato, e, infine, la riforma del mercato del lavoro non è altro che
un'introduzione di flessibilità che porta a una maggiore facilità di
licenziamenti (e quindi, di assunzioni) e a una prevalenza dei contratti
di lavoro a tempo determinato (il cosiddetto precariato).
Le cause della crisi ci vegono indicate nel debito (deficit)
pubblico giunto a livelli insostenibili e nella capacità di produzione
dei singoli paesi (indicata dal Prodotto Interno Lordo), insufficiente a
garantire entrate per il pagamento degli elevati interessi sul debito.
Per tale motivo vengono imposti il risanamento dei conti pubblici e il
pareggio del bilancio. Come se non bastasse, le Agenzie di rating,
che forniscono una valutazione sulla solidità finanziaria degli Stati
analizzando la loro capacità di far fronte al proprio debito, declassano
inesorabilmente le nazioni europee, e pertanto gli investitori tengono
lontani i propri capitali, in quanto gli investimenti in tali paesi sono
considerati troppo rischiosi.
Questi,
dunque, sono i fatti. La crisi si traduce in lacrime e sangue per i
cittadini europei, in virtù di sacrifici che vengono definiti necessari
in vista di una crescita futura che assume, però, coordinate
spazio-temporali vaghe e incerte. Sono realmente tali?
Tutte
le nazioni occidentali, ed anche e soprattutto le nazioni
economicamente all'avanguardia, possiedono un debito pubblico che spesso
raggiunge elevazioni stratosferiche. L'intera economia neocapitalistica
si fonda sull'indebitamento, e ciò significa che nessun paese può
giungere ad annullare il proprio debito, il quale è destinato a crescere
a dismisura per via del fatto che le spese di uno Stato sono sempre
maggiori delle sue entrate. Ciò dimostra che il debito in sé non è un
problema: che senso ha, allora, l'imposizione del pareggio di bilancio?
Il problema maggiore sembra essere il Prodotto Interno Lordo, e il rapporto tra il deficit
pubblico e il Prodotto Interno Lordo. Eppure, le riforme d'austerità
producono un aumento del costo della vita dato dall'impoverimento
generale della massa della popolazione (oltre che, cosa ancor più grave,
un radicale annullamento del benessere sociale, portato unicamente
dalla potenza del Welfare State, o Stato assistenziale); se la
massa della popolazione è più povera, allora compra di meno, e la
domanda di consumo cala considerevolmente; con il calo della domanda vi è
un calo speculare dell'offerta di beni e servizi, giacché sul mercato
l'offerta si adegua, appunto, alla domanda; la diminuzione dell'offerta è
una diminuzione della produzione (a cui le aziende devono far fronte
risparmiando sulla sicurezza degli impiegati e sui loro contratti,
moltiplicando l'orario lavorativo, sospendendo in generale i diritti dei
lavoratori, e poi anche liquidando manodopera in massa, trasferendo
all'estero la produzione e, nel peggiore dei casi, chiudendo l'attività
nell'impossibilità di portarla avanti), e quindi una diminuzione del
P.I.L.; la diminuzione del P.I.L. è una decrescita, ovvero una
recessione (vero è che le liberalizzazioni producono un certo aumento
del Prodotto Interno Lordo,
eppure tale aumento, limitato, non riesce a colmare i numerosi punti-percentuale
perduti), cosicché la crisi finisce paradossalmente per essere
esacerbata dai rimedi impostici. Inoltre, vi sono paesi economicamente
forti nei quali il rapporto deficit / P.I.L. è enormemente
negativo, e non per questo tali paesi rischiano di fallire (emblematico è
il caso del Giappone, terza economia del mondo). Da ciò deriva che il
risanamento e l'austerità risultano essere addirittura dannosi, e che
neanche il Prodotto Interno Lordo e il rapporto tra il deficit
pubblico e il Prodotto Interno Lordo, seppur termini essenziali
nell'andamento economico di un paese, possono essere considerati come
cause fondamentali della crisi economica europea.Per quanto riguarda le privatizzazioni selvagge, esse sono il peggior veleno dell'economia, spacciato per la migliore medicina. Uno Stato che non riesca a pagare gli interessi sul proprio debito è uno Stato le cui entrate non sono abbastanza elevate; le entrate dello Stato dipendono da due fattori: le tasse e le imposte innanzitutto, e poi i guadagni che gli derivano dai suoi possedimenti, ovvero dalle proprietà pubbliche; privatizzare tali proprietà rendendole private porta, sì, un guadagno immediato sul breve termine per via della vendita, ma anche una perdita incalcolabile sul lungo termine (se prima infatti il profitto dello Stato coincideva con l'intero guadagno derivato dalle proprietà in questione, ora esso sarà solamente una minima parte di quel guadagno, precisamente quella che verrà spesa in tributi), senza contare il fatto che in un regime di mercato neoliberista com'è quello occidentale, essenzialmente deregolamentato, la cessione di possedimenti è anche una cessione di sovranità, giacché lo Stato perde il controllo dei propri enti e delle proprie imprese.
Se poi è vero, come è vero, che l'aumento del tasso di occupazione e la diminuzione del tasso di precarietà inducono a una minor spesa da parte dello Stato (in quanto esso deve versare la cassa integrazione a un minor numero di persone improduttive) e a una maggiore capacità di consumo da parte del lavoratore (in quanto grazie alla sicurezza di un contratto fisso di lavoro si possono effettuare grandi spese usufruendo dei mutui), allora non si comprende come la flessibilità possa contribuire a migliorare una situazione già di per sé critica.
Bisogna, dunque, individuare le cause reali e i rimedi adeguati: la prospettiva del default investe esclusivamente la zona-Euro, ovvero quegli Stati dell'Europa che hanno adottato la moneta unica. Tali Stati risultano vulnerabili in quanto non hanno il potere di ottenere moneta semplicemente richiedendola alla Banca Centrale Europea, che non può prestare denaro agli Stati bensì soltanto alle Banche centrali nazionali, le quali possono, a loro volta, prestarlo solo alle Banche commerciali, e queste ultime infine esclusivamente alle imprese e ai cittadini; gli Stati, in definitiva, rimangono fuori dal sistema del prestito di moneta. Tutte le nazioni non adottanti l'Euro possono acquisire moneta direttamente da una Banca Centrale, emettendo titoli di Stato e scambiandoli con denaro, promettendo il pagamento di interessi stabiliti dallo Stato stesso; le nazioni adottanti l'Euro devono invece richiedere in prestito il denaro mettendo all'asta i propri titoli di Stato e vendendoli sul mercato dei capitali, dove gli acquirenti (che possono essere Fondi sovrani, Fondi comuni, Hedge funds di singoli speculatori finanziari, Fondi pensione, Fondi immobiliari, Assicurazioni, Banche d'affari, Società d'investimento, eccetera) stabiliscono il tasso d'interesse a proprio piacimento. Il fatto di non poter emettere da sé la moneta è l'aspetto che fa emergere la possibilità di non poter ripagare gli interessi in caso di crisi, mentre uno Stato a moneta sovrana può sempre ripagare i propri interessi indebitandosi ulteriormente, mentre il debito, essendo periodicamente rinnovato, non deve invece essere restituito; per questo motivo e per questo soltanto l'attacco dei mercati si dirige verso i paesi dell'Euro e non verso gli altri paesi. Ciò significa che l'unico modo per salvarsi dalla crisi sembra essere quello di rendere la Banca Centrale Europea un istituto simile alla Federal Reserve (Fed) americana, e cioè una banca federale prestatrice di ultima istanza.
Ci si accorgerà allora che per stimolare la crescita economica, in una situazione in cui la domanda di investimenti privati è minima, v'è una maniera opposta a quella che ci viene indicata: la spesa a deficit dello Stato. Il debito pubblico, infatti, non è la povertà, bensì la ricchezza dei cittadini: nel momento in cui lo Stato spende denaro indebitandosi, esso accredita i Conti Correnti di coloro che hanno beneficiato della sua spesa (se viene comprato un bene, ne beneficia il venditore; se viene pagato uno stipendio o una pensione, ne beneficia la persona stipendiata o pensionata; se si finanzia un progetto di costruzione, ne beneficiano le ditte incaricate e gli operai; se si investe nella ricerca o nella produzione aziendale, ne beneficiano gli istituti di ricerca o le aziende produttrici, e così via) e può generare un aumento, un'ottimizzazione e un ampliamento della produzione che portano automaticamente a una crescita del P.I.L., a un miglioramento delle condizioni economiche generali e alla creazione di posti di lavoro, con evidente profitto della massa della popolazione, il cui costo della vita tenderebbe ad abbassarsi. Attraverso la spesa a deficit, infatti, lo Stato può garantire in ogni momento investimenti illimitati in qualsivoglia settore valorizzando enti ed imprese, e potenziare a dismusura il proprio Welfare generando un benessere diffuso derivato dall'attuazione del pieno Stato sociale e della piena occupazione.
L'unico limite alla spesa di uno Stato sarebbe l'inflazione, che si definisce come l'eccesso di moneta a fronte della penuria di prodotti circolanti; eppure tale fenomeno inflattivo, che porta a un'ascesa generalizzata dei prezzi di beni e servizi e una conseguente erosione del potere d'acquisto della moneta, può essere controllato e impedito mediante gli stessi metodi con i quali è, di fatto, controllato e impedito in tutti gli Stati del mondo, ovverosia riducendo la quantità di moneta in circolazione drenando il denaro in eccesso attraverso la tassazione per poi distruggerlo, e incrementando la produttività attraverso investimenti mirati.
Che le élites sovrane non siano consapevoli di tutto ciò? Questo non importa. Volenti o nolenti esse ci guidano verso la rovina, costringendoci a imboccare una via di miseria.
lunedì 26 marzo 2012
Rivoluzione ...
Grandezza e martirio
Muammar Gheddafi, militare e capo
di Stato libico: un despota sanguinario e un mostro spietato, un
buffone lussurioso e un idiota farsesco, un pazzo e un demente. Questo
il giudizio dei media occidentali e, di riflesso, del senso comune; un
giudizio che sa di pre-giudizio. Come rivalutare la sua immagine
martoriata?
Figlio di
beduini analfabeti, impara a leggere e scrivere grazie all'educazione
coranica impartitagli. La Libia di quegli anni è un paese povero e
asservito ad americani e inglesi, dove ancora permangono i segni della
colonizzazione italiana di stampo fascista. Il governo monarchico è
corrotto e risponde agli interessi delle compagnie estere; le risorse
del territorio, prima tra tutte il petrolio, sono nelle mani straniere,
mentre il territorio stesso è manchevole delle infrastrutture
fondamentali.
Da tale
fanghiglia si erige il colonnello (aveva infatti intrapreso la carriera
militare), che assicuratosi con la sua intraprendenza la fiducia dei
militari attua un colpo di Stato incruento a cui i libici donano il
proprio sostegno, stremati dalle miserabili condizioni in cui erano
costretti a vivere nella propria terra, indignati dal contrasto con
l'agiatezza delle comunità non-libiche, entusiasti e speranzosi per il
cambiamento repentino promesso da questo carismatico personaggio. Nasce la Jamahiriya (Stato alle masse), e le idee presenti nel "Libro verde", da lui stesso concepito e scritto, sono attuate, seppur sotto l'egida della dittatura.
Il
suo modello ideologico è la repubblica panaraba socialista di Nasser
l'egiziano; eppure il regime di Nasser durò quattordici anni soltanto,
quello di Gheddafi ben quarantadue anni. In politica interna egli donò
un'identità nazionale comune alle numerose tribù nomadi che formavano il
popolo libico, trasformandoli in cittadini e garantendo con la propria
mediazione, attraverso doni e incarichi prestigiosi e, quando
necessario, attraverso la forza militare, l'ordine sociale. Espulse gli
stranieri, italiani soprattutto, dal paese, espropriando i loro beni e
donandoli alla popolazione, vendicando le usurpazioni e i torti
decennali da essa sopportati; in cambio di ciò fece dell'Italia il
partner commerciale privilegiato della Libia. Costruì abitazioni,
monumenti, ospedali, scuole, strade, acquedotti e industrie,
alfabetizzando, abbellendo e sviluppando finalmente un paese prima
d'allora invivibile. Nazionalizzò le aziende petrolifere e annullò i
contratti con le compagnie occidentali, riappropriandosi di ciò che di
diritto apparteneva alla Libia. Promosse la partecipazione dei
lavoratori alle gestione delle imprese; raddoppiò i salari minimi e
dimezzò i compensi dei ministri; abolì le tasse e le imposte, nonché gli
interessi sui prestiti; istituì istruzione, sanità, alloggi ed energia
gratuiti e pose sotto controllo i prezzi dei prodotti di prima
necessità. Mise in atto una nuova costituzione e impose la Sharia
(legge islamica), sottraendo però il potere dalle mani dei dottori di
teologia e creando di fatto uno Stato laico. Evacuò le basi militari
statunitensi e inglesi riconvertendole in basi militari libiche,
assicurando in tal modo alla nazione l'indipendenza. Le numerose riforme
che resero la Libia uno Stato ricco (il reddito pro capite fu
altissimo, il costo della vita basso, enorme il surplus pubblico) e
influente a livello internazionale furono rese possibili dai guadagni
derivati dal commercio del petrolio, di cui il paese è uno dei maggiori
produttori mondiali, guadagni che il colonnello riversò sulla
popolazione prima di tutto, e poi su di sé e sulla propria famiglia.
In
politica estera Gheddafi tentò di unificare gli Stati arabi sotto una
politica comune, e di rendere economicamente autosufficiente l'intero
continente africano, ma il progetto era troppo ampio e radicale e non
ebbe successo (è finora l'unico passo concreto che sia mai stato
compiuto in questa direzione). Sostenne i gruppi di resistenza basca, irlandese
e palestinese nella loro causa.
Per
via della sua politica anti-occidentale e anti-capitalista egli fu
dipinto, in Occidente, come il nemico per eccellenza, e fu l'obiettivo
di numerosi attentati, a cui sopravvisse come un predestinato, mentre la
nazione libica divenne vittima di un embargo. Gli Stati Uniti giunsero
persino a bombardare la sua abitazione, e in tale occasione morì la
figlia adottiva di Gheddafi, di pochi mesi (già l'esplosione di una
bomba, in giovinezza, aveva ucciso due suoi cugini, lasciando una ferita
profonda sul suo braccio e nel suo animo). La reazione, irrazionale e
sconsiderata, fu la strage di Lockerbie: la vendetta di un padre a cui
hanno ucciso una figlia. Eppure il colonnello rinsavì, ed ebbe la forza
di anteporre il bene comune al proprio risentimento: si riappacificò con
la comunità internazionale impegnandosi nella lotta contro il
terrorismo, e i rapporti commerciali della Libia ripresero vigore.
Muammar
Gheddafi è morto due anni orsono, al termine di una sanguinosa guerra
civile che ha visto opporsi da un lato le forze governative, appoggiate
dalla maggioranza della popolazione, e dall'altro una minoranza di tribù
armate dalle potenze occidentali e filo-occidentali, tra le cui file
militavano membri riconosciuti del terrorismo islamico, monarchici
nostalgici del vecchio regime e truppe inglesi e francesi, e che si è
conclusa con la caduta del suo potere e la sua uccisione brutale, grazie
soprattutto all'appoggio dell'aviazione della Nato e ai bombardamenti a
tappeto, che dietro la maschera della "missione umanitaria in difesa
dei civili" hanno devastato intere città, evitando una sicura disfatta
delle forze ribelli. Innumerevoli sono state le morti innocenti in tre
mesi di intervento militare. Egli, personalmente, non ha mai ceduto,
lottando e persino tentando di scendere a compromessi per evitare la
rovina; restando all'interno del suo paese sino alla fine, nonostante
potesse fuggire e salvarsi; continuando a incitare i suoi
uomini e affrontando una morte certa.
Oggi
la Libia è un paese distrutto, in quanto Gheddafi era l'anima della
Libia: la sua famiglia è stata menomata, molti dei suoi membri essendo
rimasti uccisi; le sue ricchezze, ricchezze dello Stato libico, sono
state confiscate e rubate dalle potenze estere; le compagnie straniere
si spartiscono di nuovo le risorse del territorio; la nazione è divisa e
si dirige verso la secessione, con intere regioni che si dichiarano
indipendenti dal potere centrale, e altre nelle quali affiora il
fondamentalismo; il nuovo governo, colpevole d'aver destato
l'insurrezione armata, non riesce a mantenere l'ordine all'interno, dove
vige l'anarchia più totale: le singole tribù e le molteplici forze che
hanno partecipato alla rivoluzione si oppongono l'una contro l'altra in
lotte intestine per il potere accompagnate da episodi di vendetta e
giustizia sommaria; i lealisti veri e presunti vengono perseguitati e
condannati per aver sostenuto il vecchio regime, così come i neri
sub-sahariani accusati di aver combattuto come mercenari per il tiranno. Le associazioni internazionali denunciano violenze, torture,
assassinii e illegalità diffusa.
A
noi rimangono le menzogne e le diffamazioni mediatiche propinateci a
reti unificate per ottenere il consenso dell'opinione pubblica (talora
producendo informazioni del tutto inventate e assurde che parlavano di
condizioni di sottomissione e povertà da Terzo Mondo; di massacri
ingiustificati nei confronti della popolazione inerme; di stupri insensati, fosse comuni ed eventi riprovevoli mai
avvenuti; di lotta popolare per la democrazia e la libertà) e la
certezza degli atroci crimini di guerra commessi non dal regime, bensì
dai suoi oppositori.
Citazioni:
"La scienza, nonostante le sue meravigliose realizzazioni, non ha dato tutte le risposte al significato della vita. Il Corano dà queste risposte. [...] Che tutti i popoli venerino Dio, invece che creature mortali come Lenin e Stalin in Russia, oppure vacche e idoli come in India, oppure macchine e ricchezze, come in molte parti d'Oriente e d'Occidente"
"Il punto di arrivo è costituito dall'avvento della nuova società socialista, quando spariranno lucro e denaro, mediante la trasformazione della società in una società di piena produzione e mediante il raggiungimento della soddisfazione delle necessità materiali dei membri di questa società"
"Noi non siamo animali rinchiusi in una fattoria, dove veniamo immolati durante le feste secondo i loro desideri. Noi siamo esseri umani che hanno il diritto di vivere con onore su questa terra e sotto il sole che illumina questa terra. Se non abbiamo questo diritto, dobbiamo combattere per averlo"
"Non
esiste uno Stato che si chiama Libia, non esiste uno Stato che si
chiama Tunisia, non esiste uno Stato che si chiama Algeria, non esiste
uno Stato che si chiama Marocco, non esiste uno Stato che si chiama
Egitto. Esiste il mondo arabo, tutti questi Stati sono il frutto
dell'imperialismo coloniale, creati per renderci loro schiavi"
"La malattia dell'Africa è soprattutto la solitudine e l'isolamento.
[...] L'Africa non ha bisogno di democrazia, ma di pompe d'acqua. La
popolazione ha bisogno di cibo e medicine"
giovedì 22 marzo 2012
Legame ...
Contro di lei, contro noi stessi
Oggi, la politica pone in atto un attacco senza eguali contro la natura.
Non si contano, nell'ultimo secolo, le azioni compiute in questa direzione e i danni a livello ambientale provocati, siano essi volontari o involontari. La deforestazione, volontaria, che ha colpito la Foresta Amazzonica in Sud America, polmone verde della Terra, ha dell'incredibile: ben un quinto di ciò che essa era è stato distrutto, e l'area continua tuttora a ridursi. La "marea nera", involontaria, nel Golfo del Messico, avvenuta due anni orsono, è il disastro petrolifero più imponente della storia dell'America, con versamento in mare di oltre ottocentomila tonnellate di greggio. Solo due esempi, ma eloquenti.
Il motivo fondamentale di questa volontà di annientamento più o meno
velata, sta nell'interesse economico: la deforestazione ha portato
profitti inimmaginabili agli Stati della zona e alle aziende implicate
attraverso lo sfruttamento delle risorse forestali, così come sono
inimmaginabili i profitti derivati dall'estrazione e dalla vendita
dell'oro nero. Così dev'essere; il legno è infatti materiale essenziale
per la vita degli uomini, con il quale si costruiscono gli oggetti più
vari e dal quale viene prodotta la carta che tanto spazio ha nella vita
delle persone, e allo stesso modo è essenziale anche il petrolio come
carburante per le nostre macchine, delle quali abbisognamo. Eppure vi è
un limite non scritto e non legittimato che gli Stati e le aziende,
guidati da uomini che si suppone dotati di coscienza e di ragione,
dovrebbero prendere in considerazione prima di agire: tale limite non è
altro che la sussistenza degli esseri umani. Ecco dunque il paradosso:
si violenta la natura per sfruttarne le risorse in vista della
sopravvivenza, e facendo ciò si mette a repentaglio quella stessa
sopravvivenza che si voleva salvaguardare.
Il problema non è dunque la natura. Ella non ha bisogno di essere
protetta, giacché è immensamente più potente di noi e nessun'azione
umana potrebbe scalfire questa sua forza prima che avvenga l'estinzione
della specie. Il problema è dato piuttosto dal fatto che noi, colpendo
lei, colpiamo noi stessi rischiando di perire, tanto è inscindibile il
nostro legame con l'ambiente e totale la nostra dipendenza da esso: la
deforestazione implica il surriscaldamento globale e una diminuzione
della quantità di ossigeno nell'aria, e il rischio dell'estrazione di
petrolio in luoghi in cui non si può intervenire prontamente in caso di
incidente è il rischio dell'inquinamento delle acque e della fine di
ogni attività produttiva che si serva del mare come risorsa alimentare.
Valgono forse, tali pericoli, l'utile guadagnato in termini di denaro?
Ebbene, non lo valgono.
Sarebbe allora cosa giusta rendere scritto e legittimo quel limite,
codificandolo sotto forma di legge internazionale; così soltanto si può
infatti rendere la semplice pretesa un "potere" in senso proprio, e
impedire quindi la distruzione sconsiderata e il conseguente
auto-annientamento che la contemporaneità ha reso più che mai evidenti,
nell'incuranza del senso comune.