Filosofia

venerdì 13 giugno 2014

 

Ontologia ...  


Scoprimento della verità dell'Essere 


L'essere si delinea, da un lato, quale l'insieme delle cose che sono, dall'altro, quale ciò che fa essere le cose così come sono e non altrimenti. Quindi, nel termine si hanno, congiunte, le determinazioni dell'esistenza e dell'essenza.
L'esistenza può essere definita come la sussistenza della cosa, ossia la cosa nella sua realtà effettiva, nel suo "come è", di contro al "che cosa è" dell'essenza. Si tratta dell'attualità (energeia) della cosa in quanto opera umana o naturale. L'essenza si può definire come la natura più intima di una cosa, la quale coincide a rigore con il suo proprio nascimento (arché, il principio e la disposizione dal quale la cosa proviene e grazie al quale prede avvio il suo movimento), ma anche con la sua propria enticità (ousia, la forma sostanziale e l'aspetto evidente della cosa, la figura e l'organizzazione visibili). Da qui deriva, altresì, il concetto della cosa. 
Le cose che sono vengono chiamate enti, in quanto hanno l'essere. L'essere di un ente determinato appartiene all'ente medesimo, è a lui immanente. E nondimeno vi è un Essere che differisce dall'Ente, cioè dall'essente come tale nella sua totalità, nonché dalla cosalità di cotale essente, giacché risulta essere da esso separato, trascendendolo: è l'Essere assoluto di contro all'essere relativo dei singoli enti. Non è possibile comprendere un tale Essere se non a partire da codesta radicale differenza ontologica.
Il complesso degli enti, o Ente, è la Natura; l'Essere si identifica, invece, con il Dio. Il dualismo di Dio e della Natura racchiude interamente l'ambito dell'essente cosale: Dio è infatti quell'anima che, instillata nella materia, produce quest'ultima e la conserva e mantiene in atto eternamente. Pertanto, la materia stessa, grazie all'anima, si mostra quale opera intrinsecamente divina. 
Entrambi l'Essere e l'Ente, Dio e la Natura - l'elemento maschile attivo e quello femminile passivo, il movimento dinamico e la stabilità strutturale - sono nominati nelle parole sacre Tao, Physis e Brahman, ovverosia, rispettivamente e secondo la lettera, la Via, la Scaturigine e la Crescita, e infine lo Sviluppo.


 

 

giovedì 22 maggio 2014

 

Mito ...


Archeologia dell'Europa e disamina delle sue sembianze storiche


Europa: donna fenicia, figlia di re - secondo il mito greco - di cui Zeus, genitore e sovrano di tutti gli dèi, si innamorò, e quindi volle far sua. Assunta la forma di splendido toro bianco, nel mezzo della mandria dei buoi del padre di lei, s'avvicinò stendendosi mansueto ai suoi piedi, nei pressi di una spiaggia su cui ella, con la sua bellezza, si dilettava a raccogliere i fiori e a rinfrescarsi nelle acque assieme alle sue ancelle. Rassicurata dalla bonarietà del possente toro, che quietamente si faceva carezzare, le montò, per voglia e per gioco, sul dorso; ma egli allora d'improvviso s'alzò, fuggendo via e rapendo la fanciulla spaventata, portandola con sé attraverso il mare sino all'isola di Creta. Lì Zeus le rivelò la sua vera identità, e tentò di violentare la vergine donna, la quale però resistette. Per avere la meglio sul suo corpo il dio, allora, si fece aquila, e la afferrò e possedette impetuoso sotto un albero di platano, il quale da quel giorno ebbe la virtù di mantenere le proprie foglie anche in inverno, permanendo sempreverde. Dall'unione di Zeus ed Europa e dalle successive nozze, nacque Minosse, futuro re di Creta e fautore della prosperità della civiltà cretese, dal quale in seguito sorse l'ancor più prospera civiltà ellenica.

Al principio, in età antica, la Grecia era l'Europa, e l'Europa era la Grecia. In Grecia, ovvero in Europa, ebbe nascimento la Filosofia. Ma dalla filosofia emerse, in età moderna, la Scienza, cosicché anch'essa si trova ad avere un'origine europea. Parimenti, la Politica e la Storia giacciono in questa stessa culla, nella quale riposa, essenzialmente, la cultura occidentale.
Con la conquista romana l'eredità europea si diffuse, attorno al Mediterraneo, nei domini dell'Impero. Europa e Roma, la patria del Diritto e della Legge, ora coincidevano. Europa fu però, altresì, la comunità cristiana, sopravvissuta, a custodire l'integrità istituzionale e continentale, dopo la caduta inesorabile della comunità romana. Europa e Religione - il Cristianesimo - erano una cosa sola. 
Oggi, Europa non sta più per 'civiltà'. Nel mondo globalizzato, infatti, non vi sono più i 'barbari', gli stranieri. L'età contemporanea è storia del declino dell'eurocentrismo, di quell'ideologia, cioè, che vede il continente europeo al centro del mondo, in quanto elargitore della ricchezza e dello sviluppo all'intero pianeta. Eppure la ricchezza e lo sviluppo stanno, attualmente, altrove: nell'estremo Occidente (che da semi europei, in ogni caso, è germogliato) e nell'estremo Oriente (che sull'influenza europea si è, per secoli, pasciuto). 
Nondimeno, l'Europa non è morta, bensì vive, e la sua vita è destinata a durare, e la sua anima a ingrandirsi nuovamente, in una futura epoca dell'oro di là da venire.


 

 

martedì 15 aprile 2014

 

Beneficenza ...


Disamina del fenomeno della compassione


Compassione, ovvero condividere una passione; compatire, ossia patire insieme a qualcuno. Con tali parole indichiamo un sentimento che sorge nell'animo dell'uomo quando egli scorge, nell'aspetto altrui, i segni della sofferenza e dell'afflizione. Non appena compaia alla percezione, e primariamente alla vista e all'udito, il dolore di un essere, sia esso dolore di tipo fisico oppure di tipo psichico - quel dolore che deforma le pieghe del corpo e dell'anima martoriandoli impietoso sino al limite della sopportazione - ecco che allora anche il percipiente s'immagina di esperire il medesimo stato, e pertanto vien preso dall'angoscia e diviene così partecipe, in sé, del dolore dell'altro. Si tratta di un fenomeno spontaneo, involontario: dunque di un fenomeno naturale, il quale è spesso seguito, se abbastanza intenso, da una opportuna azione di assistenza nei confronti del bisognoso. 
Cotale dono - giacché con ciò invero si ha a che fare, con un dare, un concedere qualcosa nel limite delle proprie possibilità - non può dirsi un dono totalmente gratuito, né tale azione un'azione integralmente altruistica: anch'essi, il dono e l'azione in questione, muovono da una forma di egoismo, e precisamente dal voler liberarsi di quella situazione penosa condivisa, dal voler pacificare in tal modo la propria coscienza morale attraverso l'esecuzione di un dovere che non sempre coincide con un piacere, dal voler evitare o scacciar via il senso di colpa che deriva o deriverebbe dal caso di un mancato intervento. Senonché si ha qui a che fare con una forma di sano egoismo, di contro alle forme di egoismo malsano, quali sono, per esempio, il cinico disinteressarsi e fregarsene le mani, e il sorvolare sulla condizione di miseria esperita pascendosi nella propria indifferenza.
Vi è chi crede o ha creduto (e, parimenti, chi crederà) che il sentimento di compassione (e, con esso, l'opera pietosa) sia oltremodo dannoso: dannoso per sé stessi in quanto distoglie l'attenzione dall'esistenza del proprio Io verso l'esistenza di un qualsiasi non-Io, e di conseguenza fa sì che si rivolga a questo le cure che dovrebbero essere elargite primariamente o addirittura esclusivamente a quello; dannoso per gli altri in quanto offende l'orgoglio e il pudore del compatito aggiungendo lui una ulteriore ferita e lasciandolo nella vergogna di dover essere stato aiutato, cioè di non aver avuto la forza di aiutarsi da sé, e di aver dovuto esporre la propria intima debolezza per giustificare quell'ausilio richiesto o non richiesto. Può accadere, a questo proposito, che l'uomo che nella sua impotenza subisce il compatire possa anche non desiderare affatto l'ausilio altrui, e quindi possa trovarsi ad essere assistito contro la propria volontà, il che farebbe nascere in lui sdegno e rabbia e ingratitudine, oltre a esacerbare l'impotenza stessa che è causa principale della sua pena.
Ma se si osserva il fenomeno da una posizione più alta, si può comprendere che: ciò che si mostra come spontaneo e naturale, ciò che avviene nella propria interiorità senza il concorso del volere consapevole, è anche qualcosa di necessario. Ma ciò che è necessario, da un lato, non può essere contrastato nel suo presentarsi, dall'altro, genera infelicità se vien represso una volta che si sia presentato; ciò che dona un aiuto, se l'aiutato lo richiede o se, pure non richiedendolo, manifesta di averne bisogno, allevia o addirittura fa cessare la sofferenza e l'afflizione proprie e altrui. L'alleviamento o la cessazione dei patimenti, però, risultano essere evidentemente benefici per sé stessi come pure per gli altri; l'assistenza pietosa, se rende felici e se porta il bene, non può che unire, introducendo una comunanza d'amore, coloro che prima erano divisi. Il compatente e il compatito infatti ora condividono una passione e un debito reciproco, i quali li legano indissolubilmente l'uno all'altro. 
Compatire è, esattamente e in senso proprio, un rafforzarsi vicendevole per cui un soggetto accorda parte della propria energia a un altro soggetto, affinché entrambi possano acquietare sé stessi e trascorrere una vita più paga.


 

 

lunedì 10 marzo 2014

 

Psicologia ...


Esposizione dei complessi di Edipo e di Elettra


La famiglia intesa in senso ristretto, quale nucleo familiare composto esclusivamente di padre, madre e figli in reciproco legame, ha radice nei fondamentali complessi psichici di Edipo e di Elettra, per mezzo dei quali si instaurano quei peculiari rapporti affettivi che determineranno in maniera essenziale la futura convivenza tra i singoli membri. 
Nel momento in cui il figlio, maschio o femmina, viene all'esistenza come neo-nato, egli possiede già un'intimità originaria con la madre in quanto corpo nel quale si è ritrovato a vivere, in stretta simbiosi, durante i suoi primi nove mesi di vita. Se la fusione iniziale viene meno quando il pargolo fuoriesce dal ventre materno e il cordone ombelicale viene tagliato, non può dirsi altrettanto riguardo all'interdipendenza, che invece permane; in definitiva, l'unione dei corpi si spezza, ma l'unione delle anime si mantiene eternamente. Il padre, al contrario, difetta di qualsivoglia tipo di intimità naturale con il figlio, e deve pertanto costruire a forza il proprio legame, imponendosi e mostrandosi come figura sentimentalmente e pedagogicamente imprescindibile.

Il complesso di Edipo si delinea come quell'insieme di fenomeni che procedono dallo svolgimento della relazione tra il padre, la madre e il figlio di sesso maschile. Sin dal principio il figlio ama la madre di un amore spontaneo, giacché lei risulta essere, per lui, la fonte primaria del nutrimento - il latte, quale nutrimento del corpo, e l'affetto, quale nutrimento dell'anima - e del piacere - il piacere fisico derivante dalla suzione del seno, e quello psichico derivante dalla stimolazione sensoriale - (l'amore, infatti, ha nascimento innanzitutto dal bisogno). Codesto amore si perpetua nei primi anni della crescita; al contempo il bambino sviluppa, in conseguenza dell'amore per la madre, un odio nei confronti del padre in quanto colui che si appropria dell'oggetto del suo desiderio (l'amore, infatti, è innanzitutto desiderio di possesso). La passione, radicata nell'animo del fanciullo, innesca l'inevitabile conflitto con la figura paterna. Giunti a questo punto, la maturazione passa attraverso il superamento del conflitto: il figlio subisce lo smacco di non poter avere per sé la madre, e al trionfo del padre si accompagna la fine della conflittualità e il cominciamento del rapporto familiare ordinario. Tale passaggio è predisposto dalla fantasia del piccolo: esplorando il proprio corpo egli nota di essere munito del pene; inizialmente, crede che l'organo sia proprio anche degli altri membri della famiglia, la madre in primis (si parla, a riguardo, di "madre fallica"); scoprendo poi che la madre e, se ne ha una, la sorella, non presentano quel particolare privilegio, e che invece il padre lo presenta, si immagina che il padre abbia punito la madre, ed eventualmente la sorella, castrandole e privandole così del fallo. Sorge quindi in lui il timore della punizione paterna, la paura della castrazione, il terrore che possa essergli estirpato con la violenza ciò che gli appartiene. Di qui il cedimento, ovvero la rinuncia alla pretesa di possesso della madre e la successiva alleanza con il padre, riconosciuto e ammirato come possessore di colei che egli non potrà mai possedere. 
Di contro, il complesso di Elettra raccoglie quell'insieme di fenomeni che procedono dallo svolgimento della relazione tra il padre, la madre e la figlia di sesso femminile. La femmina, così come il maschio e per i medesimi motivi, prova amore nei confronti della madre prima ancora di provarne per il padre, e solo successivamente il suo desiderio si volge verso il sesso opposto. Anche in questo passaggio risulta determinante la fantasia della bambina: ella ben presto vede la nudità del padre e, in caso, del fratello, e si accorge di non possedere il membro maschile; frustrata da cotale mancanza, presa dall'invidia per il pene, reputa la madre responsabile della castrazione già avvenuta, e la delusione fa sì che in lei sorga un'ostilità verso la propria genitrice, e che si innamori invece del padre in quanto possessore esclusivo di ciò che anch'ella vorrebbe possedere. L'ostilità diviene allora odio aperto e competizione con la madre per il possesso del padre, e il superamento di codesta rivalità potrà attuarsi solamente grazie alla pazienza e all'intelligenza materne, ovvero grazie alla costanza del rifiuto, da parte del genitore di sesso femminile, dello scontro con la figlia e alle sue continue cure e premure nei confronti della fanciulla in vista della conciliazione con lei. 

La madre, in definitiva, è la figura centrale. In entrambi i processi il padre è quasi un'aggiunta secondaria, la sua presenza quasi un alcunché di accidentale, il suo influsso un influsso esterno. Lei è l'incarnazione della Natura genuina e necessaria, lui della contingente e artificiosa Cultura, e in questo dualismo si mostra rappresentata non soltanto la famiglia, bensì la società intera nel suo sviluppo.
 

 

 

venerdì 14 febbraio 2014

 

Norma ...


Critica dei concetti di giustizia e di bontà e fusione di legalità e moralità


Il senso comune confonde sovente la giustizia con la bontà, eppure i due concetti non si equivalgono. Giustizia è giudicare e agire secondo la legge - giudicare, nel caso in cui il soggetto incarni il mestiere di giudice; agire, nel caso in cui il soggetto si presenti come un cittadino ordinario (colui al quale non sia concessa la cittadinanza non è obbligato a seguire le norme della città, e la pretesa che debba farlo pur non ricevendone in cambio i diritti è assurda) - bontà è, invece, giudicare e agire secondo la morale - giudicare, nel caso del possessore di autorità spirituale, ovvero il sacerdote; agire, nel caso del laico, sia esso credente o meno (infatti le categorie mentali mediante le quali decidiamo e agiamo sono le stesse, date a priori, e la coscienza di ogni uomo si erige su una struttura trascendentale di base edificatasi attraverso l'educazione e l'influsso della cultura di appartenenza). Pertanto, il giusto e il buono si distinguono, e l'uno e l'altro possono presentarsi isolatamente. 
Il giusto, per essere tale, non ha bisogno di essere buono: gli basta obbedire ai codici e alle regole scritte del proprio Stato. Anzi, se si è giudici, occorrerà possedere una certa dose di malvagità per condannare e punire l'ingiusto, cioè colui che ha violato la legge, e maggiormente severa sarà la pena, maggiore sarà la cattiveria di cui il giudice dovrà essere munito affinché egli stesso sopporti il male recato. Il principio di qualsiasi legislazione è infatti: sia dato il male ai malvagi, e tanto più male quanto più se ne è compiuto. Persino il Giudice supremo non potrà allora essere al contempo infinitamente buono e infinitamente giusto.
Il buono, viceversa, non ha bisogno di essere giusto, giacché gli basta obbedire ai principi e ai doveri impostigli dalla sua religione. Qui si nota una potenziale contraddizione tra legislazione e morale, data dal fatto che il buono, per salvaguardare la propria bontà, potrebbe risultare impossibilitato ad agire giustamente. Ma tale antinomia trova risoluzione nell'integrazione della morale all'interno della legge, dimodoché le norme morali coincidano con le norme legali, e nell'inserimento del principio di obbedienza alla legge nell'insieme dei precetti morali, cosicché l'azione giusta si delinei anche come azione buona.



 

martedì 14 gennaio 2014

 

Zoologia ...


Dimostrazione dell'insussistenza della razza e conseguente infondatezza del razzismo


Il concetto volgare di razza ha origine da un fraintendimento della scienza biologica in relazione allo studio del regno animale. La comprensione ordinaria crede che sussista - accanto alle determinazioni tassonomiche di dominio, regno, divisione, classe, ordine, famiglia, genere, specie e varietà - la determinazione di razza in quanto appartenenza a un raggruppamento di individui affini definito da identificabili caratteristiche fisiologiche omogenee ereditarie. In verità però tale determinazione non è riscontrabile né tra gli esseri animali né tantomeno tra gli esseri umani, o, più precisamente, nell'ambito delle categorie biologiche sunnominate rientrano tutte le tipologie di esseri osservabili all'interno della mondanità empirica e perciò il termine "razza" si mostra perlopiù come obsoleto.
Quando invece si parla di razze canine, feline ed equine non ci si riferisce a individui selvatici aventi qualità comuni, generatisi spontaneamente dal seno della Natura e sviluppatisi mediante processo evolutivo, bensì a individui addomesticati prodotti artificialmente attraverso incroci mirati e passati attraverso una intenzionale selezione umana allo scopo di far sorgere, preservare, migliorare certe caratteristiche reputate utili piuttosto che altre considerate inutili alle esigenze dell'uomo. In breve, è l'essere umano stesso a creare la razza (non soltanto il concetto astratto, ma anche il corrispettivo concreto), la quale non si dà nella realtà. 
Se ciò è vero allora risulta destituito il fondamento stesso del razzismo, ovvero della discriminazione razziale nei confronti di alcuni esemplari umani (peraltro scelti in maniera pressoché arbitraria e pregiudizievole), motivo ideologico malsano eppure, ahimé, ancora diffuso. Se infatti non sussiste razza alcuna all'interno del regno animale, non sussisterà nemmeno, e a maggior ragione, all'interno di quella specie, o regno a sé stante se così lo si vuol definire non a torto, che è la specie umana. Come potrebbero infatti presentarsi razze umane se non vi è e non vi può essere nessuno - giacché effettivamente non si dà un superiore organismo vivente - a produrle intenzionalmente?
La storia, millenaria, ha provveduto alla mescolanza delle innumerevoli varietà di uomo e gli uomini non hanno domandato che razza avessero di fronte a sé per decidere dell'accoppiamento e della procreazione. Dunque non esistono tipi umani incontaminati e popolazioni pure, ma tutti i tipi e le popolazioni hanno inevitabilmente subìto la combinazione e l'amalgama dei patrimoni genetici iniziali per dar luogo a infinite mutazioni e, pertanto, a infinite forme, che non cessano continuamente di innovarsi, anche in relazione all'ambiente, ed è codesto un processo irreversibile, inarrestabile ed essenziale al progredimento della specie umana medesima, altrimenti condannata alla stasi evolutiva e al ristagno della propria potenza.
 

 

 

domenica 8 dicembre 2013

 

Adamo ...


Passaggio dai beni relativi al Bene assoluto


Il termine "bene", posto come soggetto - il Bene ... - o come predicato - ... è bene -, designa, in filosofia, il concetto morale sommo. Essendovi un riferimento alla morale, esso non può che riferirsi all'essere umano, solo esecutore, e a volte artefice, di imperativi morali, nonché alla Divinità, origine diretta o indiretta di quelli (e in quest'ultimo caso l'uomo non è altri che un mediatore). Ora, qual è mai il Bene, ovvero ciò che è bene in assoluto, e quali invece i beni relativi?
Si dice bene ciò che appaga lo spirito o il corpo, oppure entrambi spirito e corpo, recando loro piacere e gioia. Ma ogni persona, ed ogni civiltà, possiede determinate idee di ciò che può essere considerato buono e di ciò che non può esserlo, e tali idee differiscono spesso tra loro, tanto che ciò che una persona, o una comunità di persone aventi la medesima cultura, reputa buono, può sembrare a un'altra persona o comunità qualcosa di malvagio. Ad esempio, si può considerare buona la ricchezza e cattiva la povertà, buono l'essere sensuali e cattivo l'esser casti, e, a seconda dei propri giudizi e pregiudizi - i quali essenzialmente dipendono dalla presenza o meno, nei comportamenti altrui, di un accordo con i precetti della morale personale e della morale collettiva -, buona una persona o una civiltà, e cattiva la persona o la civiltà avversa; ma anche viceversa, in un'inversione di valori della quale vi è ampia manifestazione nella vita quotidiana e nella storia dell'umanità. Di qui la relatività dei singoli beni. 
Nondimeno sussistono dei beni stabili, che sono tali per tutte le persone, di qualsiasi civiltà si tratti. L'assennatezza e la pietà sono beni di codesto tipo, di contro alla pazzia sconsiderata e alla crudeltà bieca, sempre e comunque dei mali. Ciò vuol dire che sussistono basi certe, i cosiddetti beni assoluti, sulle quali potersi costruire una morale universale, a partire da tutte le morali particolari preesistenti. Detto ciò non si è però ancora giunti a identificare il Bene assoluto. Con Bene assoluto noi indichiamo Dio e con egli il suo volere, che non può essere se non volto al meglio, come si addice al Divino. Può l'uomo scorgere un tale Bene? Se ci sono dati messaggi a riguardo, se vi sono segnali a indicarlo, questi non possono che trovarsi nell'interiorità umana innanzitutto, e secondariamente nei prodotti di questa interiorità (tradizioni, dottrine tramandate, testi sacri, eccetera). Cosa ci insegna allora l'anima?
L'anima insegna che vi è un istinto che preme, mediante pulsioni inconsce e desideri consapevoli, per essere appagato. Codesto istinto mira in ogni modo, non meramente alla conservazione dell'individuo e della specie, bensì all'affermazione e all'accrescimento della "vita", e ciò anche a costo della repressione o sublimazione di numerose tendenze particolari in vista della ben più importante tendenza generale. La vita personale e collettiva, e la vita collettiva più di quella personale in quanto la preservazione di quella è condizione della preservazione di questa, deve essere conservata, affermata, accresciuta. Così la Natura vuole per mezzo dell'istinto e con ciò ella indica noi il Bene assoluto; di conseguenza qualsiasi altro bene che sia riconosciuto al di fuori di questo unico risulta essere un bene relativo.


 

 

domenica 3 novembre 2013

 

Unità ...


Discorso sopra la categoria dell'Uno
 

La Filosofia non ricerca la verità in quanto esatta certezza, come fa invece la Scienza; piuttosto essa ricerca l'unità, che si identifica di fatto con la verità intesa come illatenza e svelamento. L'Uno - non il Vero - è la categoria che guida la disciplina filosofica nel suo peregrinare, e questo processo si delinea pertanto come un processo di comprensione. Comprendere significa appunto racchiudere il molteplice delle idee e dei pensieri, il quale corrisponde al molteplice che è proprio delle cose, in una visione generale o pensiero unitario, che rispecchi la generalità e unitarietà del Tutto. 
D'altronde, Uno e Tutto si identificano l'uno con l'altro. Se il Tutto ci appare diviso nelle sue molte parti, di cui noi facciamo esperienza continua, ricondurre queste molte parti all'Uno è il compito ultimo della Filosofia. Come potrebbero infatti le parti singole presentarsi in maniera separata? Come potrebbero sussistere se non fossero, al fondo, legate vicendevolmente? Sapere è aver scovato tali legami a partire dai molti, ed esser poi risaliti all'insieme che li raccoglie. Tutto ciò che appare distinto al senso comune va quindi ricongiunto attraverso l'individuazione di un elemento sostanziale o causa prima, e questa opera si compie mediante l'intelletto e l'intuizione, facoltà somme del filosofo. 
Ma l'Uno si compone della Diade. Con il termine Diade mi riferisco genericamente alle opposizioni di contrari ovunque ravvisabili nei domini del mondo e del pensiero, e in complesso rappresentabili nel simbolo cinese Tao (che può essere tradotto con "la Via"), unione armonica dei principi yin e yang. Secondo la tradizione, yin si mostra quale elemento negativo e passivo: il buio, l'odio, il male, il freddo, la notte, la luna, l'inverno e l'autunno, la terra e l'acqua, la morte e la guerra, la materia e il corpo, la passione, la natura, la femmina, eccetera; al contrario, yang si mostra quale elemento positivo e attivo: la luce, l'amore, il bene, il caldo, il giorno, il sole, l'estate e la primavera, il cielo e il fuoco, la vita e la pace, lo spirito e la mente, la ragione, la cultura, il maschio, eccetera. Tutte le polarità possono essere ridotte a questi due elementi, che perennemente lottano l'uno contro l'altro eppure permangono assieme nella quiete. Ebbene, comprendere il Tutto è in primo luogo scorgere le contrarietà opposizionali e in secondo luogo riportarle nell'integrità dell'Uno.  
 

 

 

giovedì 3 ottobre 2013 

 

Uroboro ...


Delineamento della pulsazione cosmica nel suo svolgimento perenne e destino dell'Universo


L'Universo, originato da un'esplosione primordiale denominata Big Bang, si espande inesorabilmente. La sua espansione non è un fatto accidentale, bensì un fenomeno necessario, il cui accadere è dettato dall'intima natura ed essenza profonda del cosmo medesimo (con tale termine non si intende l'Universo, bensì piuttosto l'ordine e l'armonia che lo caratterizzano, dalla parola greca "kosmos", che sta a significare appunto "ordine, armonia"), che è poi la natura e l'essenza di quell'elemento che lo compone in lungo e in largo: l'energia, ovvero l'anima del mondo.
La grande esplosione iniziale fu solo una scintilla che diede l'avvio al movimento, ma che non poteva far sì che esso continuasse a perdurare e aumentare; pertanto la Scienza ha scovato, a spiegazione di ciò, un ulteriore ampliarsi, e ne ha determinato la causa. Questo processo fu detto inflazione cosmica, e cioè quella fase, seguita al Big Bang, di espansione rapidissima dovuta all'azione della cosiddetta energia del vuoto, o energia oscura. Nei pressi di questa energia, la quale pervade l'intero spazio-tempo, ma era in principio compressa in uno spazio minuto e dunque aveva densità estremamente elevata, si verificano delle fluttuazioni quantistiche o vortici che generano coppie di corpuscoli materiali del tipo particella-antiparticella, i quali subito, nella loro contrarietà, si attraggono e scontrano annichilandosi l'un l'altro e tornando di nuovo nella condizione energetica precedente la loro creazione. Codeste micro-esplosioni, numerose e frequenti ai primordi, più rade oggi in seguito all'allargamento delle dimensioni dello spazio-tempo e alla conseguente rarefazione dell'energia, fanno da propulsore per il moto di espansione continuo. Tutt'ora infatti, com'è stato osservato, l'Universo accelera la propria espansione, seppure tale accelerazione è di gran lunga meno intensa che in passato. La proprietà naturale ed essenziale dell'Universo e dell'energia, la loro caratteristica più propria, risulta allora essere l'incremento senza limiti, il potenziamento assiduo e la crescita costante.  
Eppure anche questo movimento è destinato ad esaurirsi. Una opposta forza lotta contro la forza espansiva per il sopravvento, e aumenta la sua portata man mano che l'Universo si riempie di materia, la cui creazione a partire dall'energia non si arresta. La gravità, che ha nascita dalla deformazione spazio-temporale provocata dalla presenza dei corpi di materia sul tessuto energetico universale, attrae ogni corpo verso i corpi dotati di massa maggiore, e tutti i corpi in genere verso il centro ultramassiccio dell'cosmo, un buco nero sorto dalla grande esplosione. L'Universo allora non potrà che contrarsi e collassare, nel momento in cui codesta forza gravitazionale avrà superato e vinto la forza espansiva rivale, tendente, al contrario dell'altra, a ridursi fino a stabilizzarsi in un livello costante. Si avrà quindi il cosiddetto Big Crunch, o grande implosione, in un cammino a ritroso verso l'inizio. Ma proprio l'implosione dell'Universo, una volta compiuta, non potrà che causare nuovamente, con la sua violenza, una esplosione, e con essa un'espansione, e così via all'infinito in un un andamento ciclico e oscillatorio che in molte visioni cosmologiche assume il nome di eterno ritorno, e che si mostra come la prova più evidente dell'immortalità dell'Essere e della Natura.
  

 

 

venerdì 13 settembre 2013

 

Comunione ...


Descrizione sommaria dell'esperienza estatica


Il termine "estasi" significa, letteralmente, lo star-fuori-di-sé, ed è riferito a rare e particolari esperienze personali, tipiche soprattutto dei santi e dei religiosi più appassionati, verificantisi in ogni parte del mondo e in ogni epoca. 
Per poter stare fuori sé stessa, la persona deve necessariamente uscir fuori da sé stessa. Ma com'è mai possibile che ciò accada? Innanzitutto, la qualità fondamentale che deve possedersi per poter raggiungere uno stato altro, ovvero uno stato mistico contrapposto allo stato normale, è la fede, e precisamente la fede in una Divinità, in qualunque modo la si concepisca: solo chi creda in un Principio divino, infatti, è in grado di immergersi mente e corpo in tale Principio, giacché di questo e di nient'altro si tratta; l'estasi è, appunto, un annullamento temporaneo del proprio sé nella congiunzione con un Sé di diverso tipo, l'abbandono della propria essenza individuale in favore di una essenza universale che la ricomprenda senza distinzioni.
Un evento siffatto può essere vissuto e descritto in molti e differenti modi, e pertanto la seconda caratteristica necessaria alla persona è una fervida immaginazione, sia per poter percepire in pieno ciò che, di fatto, è difficilmente percepibile, sia per poter esprimere con le giuste parole - quasi sempre parole poetiche - codeste percezioni propriamente uniche. Una persona priva di immaginazione non può rappresentarsi ciò che sente, e non può quindi amplificare la sensazione e il sentimento sino ai limiti possibili e oltre ancora, per dare a questi un corpo e donargli statuto di realtà (in tal caso la condizione estatica, comunque esperibile nel caso in cui tutti i sensi siano eccezionalmente fini, può al massimo permanere in uno stato virtuale, manchevole di consistenza corporea); inoltre, così come non si potrà avere immagine di ciò che accade, non si potrà farne discorso, risultando, essa, cosa talmente vaga da mostrarsi confusa e inesprimibile.
Non è affatto possibile uscir fuori da sé stessi se non per mano propria, attraverso uno sforzo interiore. Nessun'altro, dall'esterno, può penetrare interamente nell'interiorità di una persona e imprimervi la sua azione. Dunque ci si concentra in sé medesimi per trarre sé stessi fuori da sé medesimi e congiungersi con il Sé di Dio, o della Natura, facendoci tutt'uno con Lui o con Lei; uomini non-ordinari possono raggiungere tale disposizione privilegiata, che infonde nell'animo una gioia altrettanto non-ordinaria. Si approda così alla consapevolezza che il Divino è presente attorno a noi e dentro di noi, e che noi stessi si può divenire divini partecipando ardentemente della Sua sostanza, una volta che ci si sia rinchiusi nella propria intimità, lontano dagli altri e dal mondo, per aprirci ad accogliere l'Altro, permettendo ai sensi di percepire l'Altro accoglierci a sua volta nel proprio seno. Qui sta certamente custodito un grande segreto per chi voglia e sia capace di portarlo alla luce.
  


 

martedì 6 agosto 2013

 

Democrazia ...


Caratterizzazione dei poteri in un regime democratico e principio della loro separazione


Il regime democratico si presenta quale la forma politica dominante dell'età odierna. La storia contemporanea non è altro che la storia dell'imporsi, tra gli Stati occidentali, degli organismi democratici sopra agli altri tipi di organismo non-democratici. E come il capitalismo si è affermato per mezzo della divisione del lavoro, che ha consentito una produzione di ricchezza senza eguali per le comunità umane, così la democrazia si affermò per mezzo della divisione dei poteri, la quale permise l'ottenimento di tutele per i cittadini mai sperimentate in passato.
I poteri dello Stato sono quattro, e accanto a essi vi sono poi un potere appartenente alla società nel suo insieme e un'altro appartenente invece alla cittadinanza; sei in tutto.
I quattro poteri statali sono il potere esecutivo, il potere legislativo, il potere giudiziario e il potere monetario. Il primo, prerogativa del governo, si occupa di far rispettare l'ordine e le leggi, di dirigere le forze militari e i servizi per la collettività, di gestire la politica interna ed estera, e di amministrare le funzioni pubbliche. Il secondo, prerogativa del parlamento, si occupa di legiferare e produrre, approvare, respingere le norme della vita associata, stabilendo i diritti e i doveri di tutti i membri. Il terzo, prerogativa della magistratura, si occupa di risolvere le controversie civili e penali mediante l'applicazione della legge e l'arbitrato di giudici imparziali. Il quarto, prerogativa della banca centrale, si occupa dell'emissione di moneta per assicurare il denaro necessario alla spesa pubblica e salvaguardare, così, la salute dell'economia.
Il potere che appartiene, per così dire, alla società nel suo insieme è il potere mediatico. Esso si delinea come un potere impersonale generato dall'azione congiunta di tutte le istituzioni, pubbliche e private, dedicantisi all'informazione e alla comunicazione delle notizie, siano esse vere oppure false. Attraverso questa azione di produzione e diffusione si genera quindi una opinione pubblica capace di influire sulla pratica politica. Il potere che appartiene invece alla cittadinanza è il potere elettivo, con il quale si intende sia la facoltà di nominare attraverso il voto i propri rappresentanti al governo e in parlamento, sia la facoltà di proporre e svolgere referendum grazie ai quali i singoli si appropriano direttamente del potere legislativo senza la mediazione dei rappresentanti eletti.
Va precisato che si devono definire "poteri" solamente quelle potenzialità che appartengono all'ambito del pubblico e alla sua intima costituzione: i cosiddetti poteri privati infatti (banche, imprese, finanza e l'insieme delle loro attività, ovverosia il mercato) risultano tali esclusivamente per via delle mancanze e dei difetti, intenzionali o non, nell'operato dei poteri pubblici.
La netta separazione tra i sei poteri garantisce un controllo incrociato che ostacola a ogni potere il superamento dei propri limiti stabiliti, preservando in tal modo da qualsiasi forma di abuso, e il loro pieno agire impedisce in ultimo l'insorgere di poteri alternativi che non abbiano come fine l'interesse collettivo.



 

lunedì 8 luglio 2013

 

Philia ...


Disquisizione sull'amicizia e sulle tipologie dei rapporti amichevoli


Che cos'è l'amicizia? Nient'altro che una tra le molteplici forme dell'amore. L'amore infatti è legame affettivo tra uomo e uomo, o tra uomo e animale, o tra uomo e attività, o tra uomo e cosa. L'amicizia rientra quindi nell'ambito della prima di queste quattro categorie.
Vi sono due modi in cui può instaurarsi un legame di tal fatta tra esseri umani: il primo è l'attrazione fisica culminante nell'amplesso sessuale, la quale si presenta tra persone di sesso opposto maschile e femminile, siano esse un uomo e una donna, o entrambe uomini, o entrambe donne; il secondo è invece l'affinità caratteriale, che di norma si mostra tra persone del medesimo sesso - ed eccezionalmente tra quelle di sesso opposto -, e il risultato è qui il rapporto amichevole e non invece la relazione amorosa in senso proprio. 
Tra le tipologie di amicizia si hanno tre possibilità: il rapporto amichevole nei confronti di una persona percepita come di valore superiore, il rapporto amichevole nei confronti di una persona percepita come di valore inferiore, e il rapporto amichevole nei confronti di una persona percepita come di pari valore (non conta il fatto che la persona in questione sia realmente superiore, inferiore o pari, bensì solamente il giudizio che, nella propria idealità, si dà di essa). 
Nell'amicizia del primo tipo si percepisce l'altro come superiore a sé in quanto si ha, di contro, una percezione di sé stessi come inferiori all'altro; un tale complesso di inferiorità è allora alla base del rapporto, che si sviluppa inevitabilmente in rapporto non-paritario. Il comportamento tipico è quello di genere emulativo, laddove si compensa la propria mancanza di sicurezza attraverso la presenza rassicurante dell'altro, del quale si seguono i passi in una cornice di dipendenza. Nell'amicizia del secondo tipo si percepisce, all'inverso, l'altro come inferiore a sé in quanto si ha una percezione di sé stessi come superiori all'altro; alla base del rapporto vi è dunque il complesso di superiorità e il rapporto è di nuovo non-paritario (i due tipi, a ben vedere, sono semplicemente i due lati opposti di uno stesso rapporto amichevole, visto prima dalla prospettiva dell'inferiore e poi da quella del superiore). Il comportamento tipico è di genere innovativo, non essendovi la necessità di emulare qualcuno, e si è inoltre in una condizione di relativa indipendenza data dal coscienza della propria forza interiore, coscienza a sua volta ricavata dalla fede che si possiede nelle proprie possibilità; eppure si ha amicizia, ovvero bisogno dell'altro, giacché mediante l'inferiore il superiore soddisfa comunque un desiderio di riconoscimento e di affermazione. Nell'amicizia del terzo tipo infine si percepisce l'altro come eguale a sé, e cioè quale persona altrettanto valida; solo in codesto caso si può parlare di amicizia autentica, essendo entrambi i termini posti su di uno stesso livello comportamentale - emulativo e innovativo assieme -, in una condizione, paritaria, di indipendenza/dipendenza reciproca. Ora il legame, seppur meno solido rispetto al precedente, risulta essere più maturo e fecondo, gravido dei frutti migliori.  


 

 

giovedì 20 giugno 2013

 

Costanti ... 


Categorizzazione degli schieramenti politici nell'invarianza delle loro manifestazioni storiche


Storicamente, per quanto riguarda gli schieramenti politici, vi sono sempre una destra e una sinistra all'interno di ogni società umana - non soltanto in quelle società che adottano il sistema partitico - le quali poi si suddividono a loro volta ognuna in una formazione radicale e una invece moderata. La distinzione è data dalla natura delle idee animanti i movimenti in questione.
La destra radicale è reazionaria, ovvero il suo scopo è quello di ripristinare uno stato di cose precedente, andato oramai perduto. Essa è dunque essenzialmente una formazione anacronistica, e il suo perno, in quanto destra estrema, è la violenza, giacché solamente mediante violenza si può sperare di ricostituire ciò che di fatto non si dà più in quanto struttura superata dal trascorrere del tempo e dall'evolvere delle organizzazioni pubbliche.
La destra moderata è conservatrice, ovvero suo fine ultimo è il mantenimento dello stato di cose vigente. Lo strumento per la salvaguardia dell'assetto attuale, che si dà nel presente, è la riforma, intesa come svolgimento e approfondimento di ciò che già è, espansione di tale assetto in ogni angolo dell'esistente, anche laddove non sia ancora giunto a compimento, sino a che esso non pervada interamente la struttura sociale. 
Di contro a codeste formazioni ideologiche vi sono movimenti opposti e speculari, che si contendono con le precedenti il dominio dello Stato in un dato periodo e luogo.
La sinistra moderata è progressista, ovvero il suo fine è il mutamento dello stato di cose vigente, essendo tale mutamento inteso come scardinamento e miglioramento della struttura sociale. Anche qui si ha la riforma quale strumento privilegiato d'azione, in vista però di un superamento di ciò che si dà nel presente, in una prospettiva innovativa e sperimentale, ricercante il nuovo (a costo di affrontare un rischio di peggioramento e di fallimento) e volta dunque al futuro. 
La sinistra radicale è rivoluzionaria, ovvero suo scopo dichiarato è abbattere la forma vigente per poi riedificare dalle fondamenta una forma altra che si presuppone ottima e pertanto preferibile rispetto alla precedente, concepita all'inverso come pessima. Qui pure la violenza risulta necessaria: preliminare alla creazione è infatti la distruzione. Una tale visione è, per essenza, utopica, in quanto muove verso qualcosa che, in determinate condizioni, ancora non si è mai dato, se non nell'immaginazione del rivoluzionario. 
Assieme a queste formazioni possono inoltre presentarsi schieramenti che si definiscono di centro, ma che in realtà risultano essere indissolubilmente legati all'una o all'altra fazione. 
Non importa, infine, chi sia, alternativamente, a dominare le istituzioni: sia le formazioni di destra, sia quelle di sinistra, mediante le idee di cui sono portatrici - le quali si declinano in un modo o nell'altro a seconda dell'epoca di riferimento e delle configurazioni politiche in essa sussistenti - influenzano inevitabilmente la cultura in cui si trovano ad agire, seminando germi di sé nel tessuto sociale, pronti a germogliare quando se ne diano le condizioni. 
  

 

 

sabato 11 maggio 2013

 

Estetica ...


Dissertazione sul concetto di bellezza


Definisco la bellezza una sensazione di piacere associata a un oggetto percepito delineantesi come sua matrice: più precisamente, si dice bella qualunque cosa colpisca in positivo la nostra percezione allietando il corpo e la mente, quale che sia la causa o il motivo per cui ciò si verifica. Il piacere esperito può essere quindi di tipo fisico e sensuale - si dia il caso di gesti singoli come una carezza, un abbraccio, un bacio, e dell'orgasmo considerato in sé -, di tipo psichico e spirituale - ad esempio nel caso della contemplazione di un bel dipinto, di una bella statua, di un bell'edificio -, oppure tutte e due le cose assieme - è il caso, principalmente, dell'amplesso considerato in genere, quale unione con la persona amata e non con una persona qualsiasi. Da questa definizione si deduce il carattere soggettivo della bellezza, ovvero il suo presentarsi o non presentarsi relativamente all'oggetto percepito e soprattutto al gusto della persona percipiente. 
Eppure può essere individuata una bellezza di stampo oggettivo, dunque assoluta, cioè una bellezza che si presenta sempre e comunque come tale indipendentemente dai fattori suddetti: sto parlando di quella bellezza che ha come origine la Natura e non invece l'artificio, a meno che non sia un artificio imitante la Natura. Tra le cose che hanno potenzialità di far sorgere il piacere vi sono infatti cose naturali, prodottesi spontaneamente, e cose artificiali, che sono opera dell'uomo (vi sarebbero, in effetti, anche cose intermedie, prodotte spontaneamente ma per opera degli animali, i quali partecipano non soltanto dell'istinto inconsapevole e inintenzionale, ossia in definitiva della Natura, ma anche di una certa misura di intenzionalità cosciente e di ragione, che costituisce la base dell'artificio). Ebbene, si può dire che l'ambito umano sia l'ambito della soggettività e della relatività, mentre l'ambito naturale sia quello in cui emergono l'oggettività e l'assolutezza; lo dimostra il fatto che chiunque si trovi dinanzi a un paesaggio, sia esso marino o montano, desertico o innevato, o altro ancora, e similmente chiunque si trovi dinanzi a un elemento, terra, acqua, aria, fuoco o fulmine, e così via dicendo, non può che essere preso da piacevole incanto. 
La Natura insomma affascina tutti gli uomini e perciò è bella essenzialmente, e ciò significa inoltre che l'uomo può creare qualcosa di bello solamente facendo ricorso alla propria naturalità interiore, alle proprie pulsioni e ai propri desideri più autentici, all'ispirazione e all'intuizione, oppure avendo il mondo naturale come paradigma e modello di riferimento della propria attività creatrice.



 

domenica 7 aprile 2013

 

Spontaneità ...


Significato dell'agire e del non-agire


Vi è l'agire e vi è il non-agire. Agire è compiere un atto, ma non-agire non è restare inattivi.  
Nel momento in cui l'uomo agisce, egli non fa che irrompere all'interno di una situazione che prima non lo riguardava essendo a lui esterna, o lo riguardava solo passivamente, e così modificarla e piegarla al proprio volere: si ha qui una forzatura del tessuto mondano ed esistenziale, e perciò tale operare si mostra come un operare artificioso, propriamente d'opposizione rispetto agli enti e agli esseri. 
Colui che invece non-agisce non si rinchiude nell'immobilità: non-agire è in definitiva un agire senza agire, un influire sulle situazioni senza però a esse fare violenza, un evitare di volgere gli avvenimenti a proprio favore in maniera coatta. L'uomo che agisce senza agire accompagna le circostanze nel loro cammino e non per questo rimane inerte, giacché egli si muove seguendo il corso naturale delle cose, perfettamente inserito nel proprio contesto di vita.
La pratica del non-agire è un abbandonarsi, un lasciarsi andare pienamente al flusso degli eventi. Questo sciogliersi e fluidificarsi, questo sradicarsi e allentare le redini presuppongono una completa accettazione di ciò che è così come esso è, e quindi un'affermazione radicale di tutto quel che accade. Codesto atteggiamento non è adottato solamente nei confronti del mondo fuoristante, bensì anche e soprattutto nei confronti del mondo interiore: non-agire significa agire esclusivamente in conformità alla propria natura, ovvero agire spontaneamente, e solo in tal caso l'azione risulterà essere tanto leggera, tanto lieve da sembrare che nessuna azione sia stata in realtà compiuta. Non-agire è pertanto agire con naturalezza, e al contempo agire in accordo agli enti e agli esseri e al loro andamento.

Si può allora affermare che l'agire è il comportamento proprio di chi lotta contro sé stesso e di chi lotta contro il mondo, e il non-agire, viceversa, il comportamento proprio di chi è in pace con sé stesso e con il mondo; il primo si presenta pertanto come la vocazione degli infelici, mentre il secondo, piuttosto, come il destino dei felici. 
 


 

venerdì 8 marzo 2013

 

Visione ...


Diversificazione delle facoltà di immaginazione e fantasia


Corre una sostanziale differenza tra le facoltà umane dell'immaginazione e della fantasia, spesso confuse in un'unica e medesima facoltà. 
L'immaginazione è la capacità che la mente ha di partorire immagini, ossia rappresentazioni di oggetti e scene virtuali, sulla base delle impressioni sensibili di oggetti e scene reali ritenuti nella memoria; non si ha, in questo processo, una mera imitazione di ciò che è, quanto piuttosto una vera e propria riproduzione dell'essere, e inoltre un'attività creativa in grado di generare nuove e alternative realtà (si tratta chiaramente di realtà soggettive, che da un punto di vista oggettivo si mostrano invece come irreali). Prodotti tipici dell'immaginare sono i cosiddetti "sogni ad occhi aperti" e, a un grado più alto, le produzioni spirituali dell'Arte. 
A partire da codesta capacità mentale sorge una seconda facoltà, cioè la fantasia. La fantasia è un derivato dell'immaginazione, un'immaginazione di gran lunga più radicale, portata alle estreme conseguenze. Gli oggetti e le scene prodotti da quella avevano infatti ancora il carattere della verosimiglianza, carattere dato dal fatto che i materiali usati per la composizione delle immagini si presentavano pur sempre come cose reali, aventi un'esistenza fisica e percepibile; ora invece la fantasia si libera di ogni legame con la realtà fisica e con la percezione sensibile, producendo oggetti e scene del tutto irreali e soprattutto inverosimili, oggetti e scene che non esistono né possono esistere in alcun modo. Si è nell'ambito della virtualità pura, laddove i materiali usati e combinati assieme sono non più le cose, bensì le immagini stesse che provengono dalle cose, a un livello dunque più elevato del precedente. I prodotti tipici del fantasticare risultano qui essere i sogni notturni e le produzioni spirituali della Religione, la quale appunto procede da quella forma d'Arte assoluta che è il mito. 
Pertanto, immaginazione e fantasia esprimono il falso, che sia un falso mascherato da vero oppure un falso palese. Qual è allora la funzione e il senso di queste due attività, e per quale motivo da esse l'umanità trae godimento? La risposta sta nella natura più profonda dell'uomo. Da quando nasce sino a quando muore l'essere umano mira a una cosa soltanto, e tutte le sue facoltà concorrono, ciascuna nel modo che più gli è proprio, ad assecondare tale mira: appagare il desiderio. L'atto immaginativo e l'atto fantasticativo non sono altro che soddisfacimenti diretti del desiderio in genere, qualsiasi forma esso si trovi ad assumere, e precisamente l'atto immaginativo non fa che donare appagamento ai desideri più superficiali, limitati e terreni, mentre l'atto fantasticativo appaga quelli più profondi, illimitati e ultraterreni.



 

venerdì 15 febbraio 2013

 

Faber ...  


Considerazioni filosofiche attorno al lavoro in genere


Il lavoro è la realizzazione delle possibilità dell'uomo, potenza umana estrinsecantesi in atto. Ogni uomo infatti è per natura e da Natura dotato di energia intrinseca che si manifesta all'esterno come forza, e precisamente come forza appropriatrice e creatrice, ovvero assorbimento di qualcosa e produzione - nonché riproduzione - di qualcosa mediante una determinata attività. 
Vi sono esclusivamente due forme del lavoro: il lavoro astratto e il lavoro concreto, il primo di norma denominato "studio" e il secondo solitamente chiamato "lavoro" in senso stretto. Il lavoro astratto si delinea come un lavoro di appropriazione innanzitutto, quindi di creazione di oggetti virtuali: i suoi prodotti sono prodotti puramente spirituali e interiori; il lavoro concreto si delinea invece fondamentalmente come un lavoro di creazione, quindi di appropriazione di nozioni e conoscenze specifiche (sebbene questo stadio spesso, ma non sempre, preceda l'altro): i suoi prodotti possiedono in tutti i casi una materialità tangibile. Le forme infantili dell'astrazione e della concrezione si possono individuare rispettivamente nelle attività dell'osservazione e del gioco, le quali si presentano pertanto come propedeutici allo studio e al lavoro adulti.
Nel lavoro in senso pieno si incarnano il piacere e il dovere; ciò introduce un'ulteriore classificazione, che si sovrappone alla precedente, in lavoro libero e lavoro coatto. Il lavoro libero è quello in cui si esprime la propria volontà, e cioè quel lavoro che deriva da una scelta intenzionale. Il lavoro coatto è al contrario un lavoro che si oppone a quello che è il proprio volere, cioè un lavoro che è svolto a seguito di una costrizione esteriore, sia essa una volontà altrui oppure una necessità circostanziale. Come risulta evidente, solamente il lavoro libero si accompagna a una sensazione di piacere, mentre invece il lavoro coatto, essendo esercitato in virtù di un obbligo morale, legale o di altro tipo, è frutto di dovere. Il dovere è l'elemento caratterizzante di qualsiasi attività lavorativa, ma non sempre l'attività lavorativa si lega al piacere (nell'osservazione e nel gioco il dovere non ha alcun ruolo, e proprio perciò codeste due attività non possono ancora essere considerate come studio e come lavoro): vi è piacere nel momento in cui il lavoro corrisponde alla volontà, e dunque la volontà al dovere; in tal caso dovere e piacere divengono uno, in quello che può esser detto un dovere piacevole o un piacere dovuto.
La gran parte dell'esistenza umana si mostra in definitiva come attività, opposta alla passività del sonno e della morte: vita e lavoro coincidono allora quasi interamente, e non a caso l'inattività genera nell'animo gli affetti della noia e della tristezza. Il lavoro umano è lavoro vivo. Di conseguenza una vita felice non può che presupporre il lavoro; un lavoro che sia non semplicemente un fare appropriativo e creativo, ma anche e soprattutto un fare ricreativo e appagante, ossia un fare che avveri la virtualità dei desideri e lasci emergere da sé il piacere.




giovedì 3 gennaio 2013

 

Apologia ...


Lineamenti della verità in senso scientifico e in senso filosofico


La Filosofia anela alla verità; la verità cui la Filosofia anela non è però una verità scientifica. 
La Scienza reputa vera un'asserzione o un insieme di asserzioni esclusivamente quando li dimostra sperimentalmente: a partire dall'osservazione empirica e dalle verità scientifiche già scovate nel passato lo scienziato individua, in maniera induttiva, dei principi o ipotesi primarie, quindi costruisce su di essi una teoria generale strutturata come insieme di ipotesi, deducendo con rigore dalle ipotesi primarie delle conseguenze o ipotesi secondarie e giungendo quindi, in ultimo, ad asserzioni che hanno la forma di previsioni sull'accadere dei fenomeni. A questo punto avviene il processo di verificazione, ovvero di certificazione: il fenomeno viene riprodotto in laboratorio (o osservato in natura), e se accadrà così come era stato previsto dalla teoria, allora essa risulterà verificata e dunque certa, nella misura in cui riuscirà a superare tutti i successivi tentativi di falsificazione che saranno posti in atto contro di lei. La Filosofia non ha nulla a che vedere con una tale tipologia di verità, cioè con la verità come certezza prodotta nell'ambito di un esperimento.
La verità che pertiene al filosofo è la verità come disvelamento: il termine "verità" ha la sua derivazione dal termine latino "veritas", il quale a sua volta è la traduzione del più antico termine greco "aletheia"; aletheia significa letteralmente "non-latenza". Non-latente è ciò che si trova nel nascondimento ma non vi permane, giacché da esso sempre fuoriesce mostrandosi nell'apparenza, dunque spontaneamente svelandosi (e tornando poi di nuovo nel nascondimento originario in un movimento continuo e infinito). Ciò che si svela da sé è necessariamente vero e non può non esserlo: è Natura. La Natura come totalità comprensiva e unitaria, che comprende parimenti il tutto mondano e il tutto umano, è appunto l'oggetto d'indagine del filosofo, mentre l'oggetto d'indagine dello scienziato, ciò che egli desidera conoscere e descrivere, è solamente una parte dell'intero naturale. Il filosofo non descrive il particolare, bensì spiega l'universale; non trova la concatenazione di cause seconde ed effetti, bensì le cause prime; non mira alla visione del "come" dei fenomeni, bensì del loro "perché". La verità che la disciplina filosofica fa propria è una verità incerta e precaria, non possiede quel grado di sicurezza che possiede la verità fatta propria dalla disciplina scientifica. E nondimeno essa è una verità che procede molto più a fondo di quanto non sia in grado di fare l'altra: la verità scientifica rimane in superficie, la verità filosofica, invece, giunge al cuore stesso delle cose.



 

lunedì 3 dicembre 2012 

 

Biologia ...


Discorso sulla natura della vita e fenomenologia della morte

 
Per poter comprendere la morte occorre innanzitutto comprendere la vita. La morte infatti della vita non è l'opposto, come si suole pensare, bensì la sua estremità finale, così come la nascita ne è l'estremità iniziale: la morte è allora l'opposto della nascita.
Detto questo ci si chiede: "che cos'è la vita?". La vita si mostra come un processo chimico-fisico-psichico che si individua in un gruppo determinato di enti che chiamiamo enti vivi, o esseri viventi. La peculiarità di tali esseri è il fatto di essere in grado di muovere da sé le proprie parti interne ed esterne in vista della conservazione e della crescita. Ma che cos'è che fa sì che essi possano muoversi in tal senso? Quale elemento li distingue dagli enti ordinari inabili alla vita?
Sovente si appellano gli esseri con l'aggettivo "animati" in sostituzione di "viventi". Se "animato" e "vivente" sono sinonimi, allora anche i termini dai quali codesti aggettivi derivano devono essere tali, e dire "anima" è quindi identico a dire "vita". L'identità di anima e vita è presente sin dagli albori del pensiero umano, sia in Occidente sia in Oriente. Coniando il concetto di anima si è appunto voluto dare un nome a quell'elemento misterioso che si suppone renda vivi alcuni tipi di enti e non invece altri. Che un'anima sussista ed esista è cosa certa, altrimenti non vi sarebbe modo di distinguere, ad esempio, un animale da una pietra. L'anima è pertanto la causa della vita in quegli enti che ne possiedono il privilegio, ma bisogna scovare in che modo questa causa agisca a generare il processo chimico-fisico-psichico vivificante.
La differenza tra l'animale e la pietra è che il primo presenta in sé un anima attiva che gli permette di sviluppare il movimento. Dal punto di vista strettamente scientifico qualsiasi tipo di processo motorio, interno od esterno che sia, ha bisogno di un'energia per avere luogo; senza l'apporto energetico necessario nessuno sforzo può darsi, e dunque nessun tipo di moto. L'energia dona la spinta dalla quale si genera ogni lavoro, intendendo quest'ultimo come un muoversi finalizzato a un qualche scopo. Ciò significa che se la vita è movimento interiore ed esteriore, e se l'anima è, agendo, la causa della vita, allora l'energia, che è causa del movimento, è anche causa della vita e coincide con l'anima stessa. Ma se l'anima è energia allora essa non può essere l'elemento di distinzione tra enti inanimati ed esseri viventi, in quanto sappiamo che l'intera materia non è altro che energia condensata in una forma consistente.
Se ciò è vero, se sia gli enti inanimati sia gli esseri viventi possiedono un'anima-energia, la distinzione fondamentale deve essere ricercata altrove, ovverosia nel corpo. La differenza tra un animale e una pietra è infatti che il primo possiede un corpo in grado di sfruttare l'anima-energia presente al suo interno, e procurata dall'esterno mediante la nutrizione, per produrre movimento. Egli fa ciò mediante i suoi organi interni e le sue membra esterne, organi e membra che l'altro non possiede. Organi e membra sono allora gli elementi discriminanti tra ente inanimato ed essere vivente.

La vita è quindi anima-energia che agisce con l'ausilio delle strutture corporee. Ciascuna vita è legata a un singolo essere e ne condivide la durata; ha un inizio e una fine che si delineano come nascita e morte dell'essere in questione. La nascita è generazione a partire dall'unione di una coppia di altri esseri, specificamente maschio e femmina. La morte è invece decomposizione, anche qui verificantesi, in parte, per mezzo dell'azione di altri esseri viventi (batteri soprattutto), di cui diveniamo nutrimento, e in parte ad opera degli enzimi non più trattenuti nelle cellule, i quali liberandosi innescano una sorta di auto-digestione dei tessuti, disgregandoli. Ma se questa è la sorte del corpo, quale può essere la sorte dell'anima? Tutti gli esseri animali si nutrono esclusivamente di materia solida, ed estraggono energia da questa materia. Gli esseri vegetali, al contrario, sono in grado di sintetizzare da sé il nutrimento materiale a partire dall'energia della luce solare, e dunque non si nutrono di corpi. Nessun essere che si nutra di corpi è capace di procurarsi energia direttamente e di sfruttare l'energia pura. La sorte dell'anima pertanto non coincide con la sorte del corpo. 
L'anima-energia, non essendo corporea, non può decomporsi. Ma se si definisce la morte come decomposizione delle strutture corporee, si giunge alla conclusione che essa non può morire, e risulta essere quindi immortale. La morte però, più precisamente, può essere definita come cessazione delle funzioni vitali a seguito del deterioramento delle strutture corporee, quand'esse siano colpite e irrimediabilmente danneggiate oppure si usurino progressivamente per via dell'uso continuato, rovinandosi da sé, mentre la decomposizione è piuttosto un processo che si verifica in un tempo successivo, a morte già avvenuta: essa è la morte propria della materia non-più-vivente. L'anima, certamente, cessa di agire quando non ha più il supporto materiale adatto alla sua azione; quando cioè gli organi e le membra che le permettevano di far sorgere il movimento vitale non sono più in condizioni di sfruttare l'energia per compiere un qualsiasi lavoro. In questo senso l'anima muore con la morte del corpo, pur senza dissolversi.
Quest'anima che prima fluiva in un corpo e che ora è impossibilitata ad agire non scompare, ma, una volta esaurita, permane nella sua condizione originaria di elemento sostanziale presente in ogni corpo materiale, ed anche al di fuori dei corpi come energia allo stato puro. Essa allora è sempre presente ovunque, e la morte dell'individuo non intacca il suo essere unitario come anima del mondo, né la sua capacità di agire in altri modi al di fuori dei processi chimico-fisico-psichici che sono propri degli esseri viventi. 
   

 

 

venerdì 9 novembre 2012

 

Sophos ...


Sapienza, saggezza, santità. Distinzioni concettuali 


Non esclusivamente la sapienza, non esclusivamente la saggezza, bensì sapienza e saggezza insieme fanno l'uomo puro. Occorre, innanzitutto, sancire la differenza tra i due termini. 
Sapienza indica un sapere meramente teoretico; sapere un qualcosa significa infatti comprenderlo nelle sue cause prime. Nel momento in cui io mi trovo dinanzi a un ente, a un essere, a un'entità, a un fenomeno, e lo spiego scovandone il "perché", ecco che acquisisco comprensione e dunque sapienza riguardo a quell'ente, essere, entità, fenomeno. Posso dire allora di saper pensare.
Saggezza, al contrario, indica un sapere meramente pratico; esser saggi significa essere in grado di agire bene, ovvero di agire in maniera adeguata alle circostanze. Nel momento in cui mi trovo in una determinata situazione, ecco che ponderando i pro e i contro giungo ad attuare la scelta più consona e quindi a comportarmi saggiamente. Posso dire allora di saper vivere.
Si può essere sapienti pur non essendo saggi, e saggi pur non essendo sapienti. Nel primo caso, si avrà un uomo di conoscenza, nel secondo caso, un uomo di esperienza. Più difficile è invece per il sapiente attuare il pensiero, e per il saggio pensare l'azione. Eppure il pensiero contiene un rimando all'azione, e l'azione un rimando al pensiero: entrambi tendono a completarsi nel proprio opposto. Solo nel caso in cui un uomo possieda tutte e due le qualità si potrà di lui affermare che è un uomo completo. 
L'uomo completo, che ha compiuto la propria natura pensante e agente, coincide con l'uomo puro. Purezza sta qui a significare l'essere-senza-macchia, incapace di commettere errori nella teoria come nella prassi. L'uomo puro è essenzialmente un uomo integro, e l'integrità fa intravedere l'orizzonte dell'etica, nel quale solamente è possibile portare alla luce il bene. Le figure del sapiente e del saggio si identificano, pertanto, nella figura del santo, cioè di colui che fa necessariamente il bene.
     

 

 

lunedì 1 ottobre 2012

 

Radici ...


Origine e senso del concetto di Patria


Il concetto di Patria rimanda alla figura del padre; padre come figura famigliare, come figura statale e poi continentale, infine come figura divina. Il padre è, tradizionalmente, il dominatore e l'educatore; appartiene quindi in tutto e per tutto all'ambito culturale. Patria è, altresì, colei che edifica le coscienze dei propri figli, donandogli una forma; è colei che ordina e vuole essere obbedita in vista di un bene collettivo. La sua origine sta, certamente, nella fedeltà al sovrano, e difatti essa si mostra definitivamente dopo la graduale spersonalizzazione del potere politico nel corso dell'età moderna.
Si nota, però, come il termine sia declinato al femminile e non al maschile, e come spesso sia accompagnato dall'appellativo di "madre" (Madre Patria), e questo sembra contraddire il rimando all'immagine paterna. Codesta contraddizione è però meramente superficiale, apparente: l'origine del padre sta, infatti, nella madre che lo partorisce, e la cultura non è mai prima in ordine di tempo, giacché essa sorge sempre dalla natura. Ora, per gli antichi il maschio, a causa della sua fecondità spirituale, è simbolo di potenza culturale, mentre la femmina, a causa della sua fecondità corporea, è simbolo di potenza naturale. Ciò significa che all'origine si ha sempre il principio femminile, mentre il principio maschile è sempre derivato e successivo, in quanto procede da quello: così anche la Patria, nella sua declinazione, mostra la propria origine dall'immagine materna. Inoltre, Patria è anche il luogo natio, il grembo natale, e per tal motivo la si denomina come madre, una madre che accudisce e alleva i propri figli.
Si può allora intravedere nella figura della madre il significato più profondo del concetto, presente sin dagli inizi dell'umanità, sebbene il concetto medesimo fosse ancora inespresso. Se fosse stato espresso, tale concetto avrebbe assunto il nome di "Matria". Matria è la terra e la casa nella quale, appunto, si nasce e si trascorre la propria infanzia, le cui esperienze ci accompagneranno lungo l'arco dell'intera vita, e i cui ricordi vaghi e frammentari saranno posti ad archetipi di una felicità oramai irraggiungibile; è la terra e la casa dalla quale ci si diparte senza mai poter lasciarla completamente, e alla quale inevitabilmente si ritorna, realmente o virtualmente, nella concretezza della presenza fisica oppure nell'astrattezza dell'immaginazione. Tale è il senso recondito che permane invariato lungo la storia dei vari mutamenti linguistici, e rispetto al quale il senso precedente risulta quindi essere secondario; pertanto, esso si delinea come l'essenza più intima del concetto.
  

 

 

giovedì 6 settembre 2012 

 

Atarassia ...


Tipologie e modalità di superamento dei turbamenti interiori 


I desideri e le passioni turbano l'animo dell'uomo. La tranquillità dell'animo è, però, una delle prerogative dell'uomo felice rispetto all'uomo comune oppure infelice. La felicità, pertanto, presuppone l'imperturbabilità.
Un uomo che abbia in sé l'animo pacificato è detto essere in uno stato di beatitudine. La beatitudine non è altro che un'assenza di turbamenti interiori. Con turbamento interiore intendo, appunto, un desiderio che preme per essere soddisfatto, o una passione che prende possesso dello spirito e, dunque, del corpo. 
Quando un desiderio si affaccia alla coscienza, l'animo si inquieta inevitabilmente. La sua inquietudine deriva dal voler conseguire qualcosa che non si possiede e che, spesso, non si può possedere in alcun modo. Più la soddisfazione del desiderio suddetto sarà difficile, più lungo sarà il periodo di tempo nel quale l'animo permarrà in una condizione di turbamento.
Quando una passione sorge, l'uomo viene a trovarsi in uno stato di disordine psico-fisico. Un siffatto disordine procede dal dover fronteggiare una forza impetuosa che, il più delle volte, surclassa la potenza della ragione. Sino a che la passione irrazionale avrà forma di patimento, sarà lei a guidare le nostre scelte, regalandoci preoccupazioni e sofferenze evitabili.
Eliminare i turbamenti significa eliminare non i desideri e le passioni, essenziali per vivere appieno la propria esistenza, bensì gli effetti collaterali che hanno come causa i desideri e le passioni. Per far ciò, occorre mantenere il governo della ragione, unica facoltà spirituale capace di misura e in grado, quindi, di tenere le redini del corpo. Il governo della ragione, però, non deve essere inteso come una repressione dei desideri e delle passioni: ciò, infatti, porterebbe a quell'infelicità che si cerca, piuttosto, di evitare.
Due sono i modi razionali di far fronte al turbamento conseguente ai desideri: la loro soddisfazione, da un lato; il loro annullamento alla radice, dall'altro. Nel momento in cui si esperisce il desiderio, il primo pensiero deve essere, quando essa sia attuabile ed attuabile in tempi brevi, la soddisfazione. Il compito della ragione è, qui, di favorire il conseguimento della cosa desiderata, escogitando strategie per aggirare o scavalcare gli ostacoli eventuali. Ma se il desiderio è inattuabile o difficilmente attuabile, allora esso va estirpato dalla propria mente, e ciò è possibile esclusivamente attraverso la pratica meditativa. Il compito della ragione sarà, allora, quello di concentrarsi in sé stessa, acquisendo un alto grado di consapevolezza interiore.   
Uno soltanto è il modo razionale di far fronte al turbamento conseguente alle passioni: tramutare il patire in un agire. Nel momento in cui si esperisce la passione, il primo pensiero deve essere il mantenimento della padronanza di sé stessi. La ragione impedisce alla passione di assumere il dominio della persona e, al contempo, si pone come obiettivo la piena espressione della passionalità.
Mediante codesti tre modi si consegue la quiete interiore e si porta a compimento la beatitudine: è questo il primo passo lungo la via che porta alla felicità.


 

 

venerdì 3 agosto 2012 

 

Relazione ...


Dialettica dell'Io e del Tu


Io e Tu risultano essere unità indissolubile. L'Io non sussiste mai da solo: quand'anche si trovi in solitudine, compagno di sé stesso, egli sa che, al di fuori di un determinato luogo e oltre un determinato periodo di tempo, vi saranno persone con le quali entrerà in contatto; un contatto assiduo, costante e, inoltre, profondo. L'esistenza stessa dell'Io, la sua caratteristica più propria, non è altro che relazione.
L'Io sorge prima ancora della venuta al mondo dell'uomo, e già nel ventre egli percepisce il Tu della madre. Un tale Io è strettamente legato al Tu, e da lui si trova a dover dipendere. Al Tu della madre si aggiunge, in seguito, il Tu del padre, anch'esso altrettanto essenziale per lo sviluppo dell'Io, ed eventualmente quello dei fratelli e delle sorelle, con i quali si condivide la crescita. Anche al di fuori della famiglia ristretta si stabiliscono relazioni più o meno approfondite, con i membri della famiglia allargata: nonni, zii, cugini, eccetera. Vi saranno, poi, le persone con cui si stabilirà una relazione di amicizia, e quelle con cui si costruiranno relazioni amorose; le persone che saranno per l'Io dei maestri e dei secondi padri; il Tu supremo, percepito come più o meno reale, più o meno immaginario, e cioè Dio. La vita sociale nella sua interezza si costituisce di relazioni del tipo Io-Tu che si incrociano e giustappongono fra loro.
Ciò sta a significare una cosa soltanto: l'Io vive della basilare relazione con il Tu, e non può fare a meno di codesta relazione, giacché essa si delinea come suo bisogno o necessità intrinseca. Il Tu è, fondamentalmente, un Altro-Io, oppure addirittura una frammento dell'Io. 
L'uomo è un essere relazionale. Nondimeno, tale relazionalità può essere spezzata, e vi è un unico elemento capace di spezzarla: l'egoismo utilitarista e pragmatista, il quale vede la persona non più come un Tu, bensì come un Esso, ovvero una cosa impersonale, un mezzo e non un fine; tale elemento, in un certo senso artificiale, in quanto estraneo alla natura umana, introdotto dal di fuori e non emergente dal di dentro, rompe infatti il legame, per quanto questo possa esser saldo. Si ha allora, con la rovina del Tu e la rottura della relazione, la conseguente rovina dell'Io, ossia la sua morte anticipata; più precisamente, l'infelicità dell'Io.
   

 

 

sabato 7 luglio 2012

 

Cultura ...


Definizioni di Spirito e Cultura e necessità della loro presenza e azione


Che cos'è lo Spirito? 
Lo Spirito è l'insieme dei prodotti della mente umana: sentimenti e passioni (affezioni in primo luogo mentali e poi, in secondo luogo, corporee), idee e pensieri, desideri e volontà; l'immaginazione, la fantasia, la memoria, la ragione e l'intelletto; l'inconscio e la coscienza.

Che cos'è la Cultura?
La Cultura è il ricettacolo delle forme dello Spirito: l'Arte (nel senso più ampio del termine, a comprendere, oltre a scultura, architettura e pittura, la letteratura, la danza, la musica, il teatro, il cinema, la fotografia, eccetera), la Filosofia e la Scienza, ovvero lo Spirito teoretico; e poi la Politica e la Storia, ovvero lo Spirito pratico; infine la Religione, spiritualità insieme teoretica e pratica.

Può un uomo fare a meno dello Spirito? No di certo. Può una società fare a meno della Cultura? Non può. Così come l'esistenza di un uomo privo di Spirito è una morte vivente, o una vita morente, l'esistenza di una società priva di Cultura è un degrado progressivo, o un progresso degradante. Spirito e Cultura si mostrano come caratteristiche peculiari dell'umanità, senza le quali l'umanità decade al rango di bestialità, oppure ancora più in basso, al rango di automaticità, o peggio ancora, al rango di inertità. L'uomo-bestia, l'uomo-macchina e l'uomo-merce sono allora i derivati dell'assenza di Spirito e di Cultura.

La presenza dello Spirito e della Cultura avvicina invece l'uomo al Dio: la loro essenza è infatti l'attività creatrice. La proliferazione dell'uomo-Dio non è altro che una conseguenza dell'azione dello Spirito all'interno dell'uomo, e della Cultura all'interno della società.


 

 

sabato 19 maggio 2012


Fallacia ...


Riduzioni moderne del concetto di libertà e suo significato reale


La libertà è dai moderni intesa in un duplice senso: da un lato come libero arbitrio (retaggio del Cristianesimo), dall'altro come indipendenza (retaggio del Capitalismo). 
Il libero arbitrio è la libertà di scelta, la possibilità di decidere liberamente delle proprie azioni. Potendo il soggetto indirizzarsi ugualmente verso una direzione o verso un'altra, di fronte a un orizzonte di opzioni egli preferirà l'una o l'altra a seconda di ciò che ritiene essere buono e giusto; a seconda di quel che, nel suo giudizio, risulterà essere migliore e più conveniente per sé stesso o per gli altri, o insieme per sé stesso e per gli altri. Ciò significa che ogni individuo, agendo, si addossa non soltanto la responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze, ma anche la colpa di eventuali mali compiuti direttamente o indirettamente, volontariamente o meno. 
L'indipendenza è libertà di pensare, esprimersi e agire senza interferenze esterne, senza dover rendere conto ad alcuno dei propri pensieri, delle proprie espressioni, delle proprie azioni; libertà di vivere l'esistenza secondo la propria volontà e non secondo la volontà di un altro. Questo "altro" che può impedire noi di essere ciò che vogliamo è un "potere", una forza esterna capace di surclassare la nostra propria forza individuale: tale potere non può che essere il potere dello Stato. Ciò significa che ogni uomo deve, per realizzare sé stesso, poter vivere a proprio piacimento, fuoriuscendo dalle maglie di quell'autorità sovrana che può volgerne l'esistenza singola a suo favore. 
L'essere umano, si crede, è libero nell'arbitrio e indipendente per natura intrinseca. Per questo motivo la libertà assurge a idolo sacro e incontrastato nell'Occidente cristiano-capitalista.

Eppure tali visioni della libertà non sono altro che riduzioni o, peggio ancora, fraintendimenti.
Innanzitutto: non esiste alcun libero arbitrio. Si ha effettivamente l'impressione di essere liberi nella scelta, di poter decidere liberamente delle proprie azioni, ma una tale impressione è un'illusione derivante dal fatto di essere coscienti delle proprie scelte e delle proprie azioni, ma di ignorare al contempo le cause di tali scelte e di tali azioni. Ovvero: il soggetto, nel momento in cui si trova di fronte a un orizzonte di opzioni possibili, è consapevole di star decidendo tra tali opzioni. In lui vi è una lotta di motivazioni, alcune delle quali premono verso una direzione, altre verso una direzione diversa, e così via. In questa lotta, soltanto alcune motivazioni, in quanto più forti, usciranno vincitrici, stabilendo la scelta e, di conseguenza, l'azione. Ma nessun soggetto conosce, né può affatto conoscere, la concatenazione infinita di cause precedenti che hanno portato casualmente alla comparsa di quella motivazione vittoriosa in quel preciso momento. Da questa relazione tra coscienza e ignoranza procede l'impressione di una libertà dell'arbitrio. Ma l'arbitrio è, come detto, determinato (e non pre-determinato) dalla necessità delle concatenazioni causali precedenti, e la necessità è guidata dalla casualità dell'incrociarsi di quelle concatenazioni: si ha, pertanto, un necessario arbitrio nato da accidentalità fatali. La verità è, dunque, questa: nel momento in cui scelgo e agisco, tale scelta e azione particolare non poteva non venire alla luce; nel momento in cui decido, non avrei mai potuto, date le medesime condizioni, decidere altrimenti. Si è dunque incolpevoli, in quanto schiavi della necessità e del caso, ma anche consapevoli, e, perciò, responsabili. 
Infine: non è possibile alcuna indipendenza. Si crede fermamente di essere nati liberi da qualsivoglia influenza, e di dover quindi salvaguardare tale libertà fondamentale, ma una tale convinzione è del tutto infondata. Da sempre l'uomo vive, infatti, in una condizione imprescindibile di dipendenza da fattori esterni: egli è sottoposto all'autorità dei genitori all'interno dell'ambito familiare, e a quella dei detentori del potere (insegnanti, datori di lavoro, sacerdoti, governanti, eccetera) all'interno dell'ambito sociale. I suoi pensieri e le sue azioni sono inevitabilmente determinati dall'educazione impostagli dall'ambiente in cui si trova inserito, cosicché egli è, in un certo senso, schiavo in ogni momento di forze estrinseche che modellano la sua propria interiorità. La volontà del singolo è, di fatto, la volontà del Potere, la quale non necessariamente si identifica con lo Stato; la differenza sta, piuttosto, nel grado più o meno alto di schiavitù, e nella quantità maggiore o minore di libertà concessa da tale Potere. Pertanto, credere di poter conquistare, all'interno dell'unione sociale, un'indipendenza che non è mai esistita, né può esistere in alcun modo, in quanto la dipendenza è la condizione stessa di possibilità dell'unione sociale in genere e senza di essa l'individuo, lasciato a sé stesso, non potrebbe nemmeno sopravvivere, risulta essere quantomeno ingenuo, utopico, e addirittura assurdo. L'auto-realizzazione non dipende certo da una libertà così intesa, che altrimenti sarebbe impossibile realizzare sé stessi.

Bisogna allora ri-definire il concetto di libertà per scorgerne il senso autentico.
Se una libertà esiste, essa deve mostrarsi all'interno delle circostanze fattuali ineliminabili del necessario arbitrio e della dipendenza. Il primo punto è quindi l'accettazione della necessità: il nostro arbitrio è determinato; noi dipendiamo da un Potere. 
Il secondo punto è l'accettazione di quella componente di casualità che guida gli eventi, ovverosia il fato. Sia quando io mi trovi ad esperire il piacere e la gioia, sia quando mi trovi ad esperire il dolore e la sofferenza; sia che io viva la buona oppure la cattiva sorte, questo è il destino, e così è giusto che sia.
A partire da qui, bisogna altresì chiedersi: cosa è che imprigiona gli esseri umani rendendoli impotenti? La risposta è: la servitù del corpo e della mente. E che cosa asservisce il corpo e la mente? Le passioni disordinate da un lato, i dogmi e i pregiudizi dall'altro.
Ma ciò che imprigiona e rende impotenti più di ogni altra cosa è l'infelicità, che si genera dalla repressione della propria natura intrinseca, in qualsiasi modo si compia.
Libertà è quindi, in conclusione, abbracciare la necessità e il caso che fanno parte dell'esistenza, ordinare le passioni mediante la ragione, ripulire il proprio pensiero dai dogmi e dai pregiudizi, e, soprattutto, seguire i dettami della natura, che equivale a vivere con spontaneità.
Dalla libertà così intesa emerge impetuosa la volontà, e con essa la possibilità della realizzazione di sé.
 


 

giovedì 17 maggio 2012


Persona ...


Unità e trinità della persona. Conseguenze


L'uomo è uno e trino, giacché la sua persona è unione di tre persone distinte: Es, ovvero il Sé; Ego, ovvero l'Io; Super-Ego, ovvero l'Altro-sopra-all'Io.

L'Es, o Sé, è l'anima concupiscibile, il non-luogo del desiderio, la voluttà. Qui si esprime la totalità dei desideri, da quelli più reconditi e inconsci a quelli più accessibili e coscienti; desideri di vita e desideri di morte, desideri sessuali risultanti da pulsioni erotiche e desideri aggressivi risultanti da pulsioni violente, desideri di creazione e di distruzione. Qui si manifesta il bisogno ineluttabile, ciò che non può essere evitato o fuggito in alcun modo, bensì soltanto direttamente o indirettamente represso o soddisfatto. La sua lingua è quella della fantasia e del sogno. La sua legge è il principio di piacere. La sua incarnazione è il bambino.
  
L'Ego, o Io, è l'anima razionale, il non-luogo della ragione, l'intelligenza. Qui si esprimono le facoltà del pensiero raziocinante, la rappresentazione, la riflessione e il giudizio, cioè la coscienza che si affaccia sul mondo mediando tra interno ed esterno. Qui si manifesta la necessità, e si producono, attraverso l'azione, le funzioni essenziali di sopravvivenza, adattamento, affermazione e apprendimento; in definitiva l'intera vita consapevole. La sua lingua è il linguaggio comune, la parola detta e scritta. La sua legge è il principio di realtà. La sua incarnazione è l'adulto.
      
Il Super-Ego, o Altro-sopra-all'Io, è l'anima irascibile, il non-luogo del dovere, la moralità. Qui si esprimono gli insegnamenti dell'educazione, i precetti etici, il senso comune, la moda, nonché le punizioni per la propria condotta quando si violano le norme e le leggi: si hanno allora la censura, il senso di colpa e l'angoscia. Qui si manifestano l'arbitrio e la coazione. La sua lingua è il terrore della condanna e del castigo. La sua legge è il principio di autorità. La sua incarnazione è il Padre (inteso come padre biologico, come maestro, come Dio o come Stato).

Il nostro Io deve dunque far fronte alle richieste di ben tre padroni: da un lato il Sé, dall'altro il mondo, e infine l'Altro-sopra-all'Io. Ognuno di questi tre padroni desta in noi una determinata volontà. Che accade se tali volontà si contrappongono? L'Io sarà costretto a soddisfare tutte domande per evitare un penoso malessere, derivante sia dal mancato appagamento del desiderio, sia dal pericolo del dolore, della sofferenza o dell'annientamento, sia dall'infrazione delle regole. Si mostrerà, pertanto, l'impossibilità dell'esaudimento totale, e si dovrà quindi scegliere di sacrificare almeno una pretesa. Si avrà una rinuncia, e la rinuncia porterà, a breve termine, all'insoddisfazione, e, a lungo termine, all'infelicità. 
Per evitare ciò occorre instaurare un equilibrio psichico, facendo sì che le tre istanze siano in armonia tra di loro, volgendosi nella medesima direzione: esse devono volere la stessa cosa. Solo in tal modo l'Io potrà assicurare, com'è suo compito, una completa gratificazione e, conseguentemente, un benessere che è sentimento di soddisfazione a breve termine e condizione di felicità a lungo termine.


 

 

lunedì 14 maggio 2012


Opposizione ...


Dialettica dei contrari e positività del contrasto


"Polemos è signore di tutte le cose". Il giorno e la notte, la luce e l'oscurità si avvicendano sopraffandosi (il sole sorge scacciando via la luna; la luna si solleva sostituendosi al sole), e così le stagioni, primavera ed estate da un lato, autunno e inverno dall'altro (qui sono il caldo e il freddo a vincersi periodicamente). 
La crosta terrestre vien fuori da lava incandescente raffreddatasi in superficie, per poi tornare nelle profondità più calde e tramutarsi nuovamente in lava. Le acque surriscaldate ascendono, come vapore, al cielo, precipitano poi dalle nubi e ritornano infine nella forma iniziale. La lotta tra gli elementi è ciclica e perenne. 
I vegetali gareggiano tra di loro per conquistarsi uno spazio vitale; gli animali si contendono il nutrimento e i maschi le femmine. Gli uomini competono inoltre nello sport, nel lavoro e nella guerra. La vita intera è un campo di battaglia dove forze innumerevoli e diverse concorrono per gli scopi più vari.
Tutto si oppone inevitabilmente. Elettroni e protoni provano avversione gli uni verso gli altri; particelle e anti-particelle si annichiliscono. Al piacere e alla gioia succedono il dolore e la sofferenza, e viceversa a questi quelli, e così via in progressione infinita. Ovunque si guardi, in lungo e in largo, si troverà, sotto forma più o meno violenta, la rivalità dei contrari.

Eppure tale conflittualità onnipresente non impedisce la sussistenza dell'armonia: ogni cosa, mediante l'ostilità e la negazione dell'altro, mediante la contrapposizione con il proprio opposto, trova il modo di esistere e svilupparsi, e il tutto permane misteriosamente in equilibrio. Paradossalmente, la distruzione genera il legame, il disordine l'ordine; inimicizia e amicizia convivono e la prima fonda la possibilità della seconda. Da un principio di divisione emerge spontanea l'unione, affinché si possa dire: "Eros è signore di tutte le cose".
      

 

 

venerdì 4 maggio 2012


Flusso ...


Brevi riflessioni sul tempo

  1. Il tempo è il modello matematico del divenire, divenuto concetto comune. L'esistenza di enti ed esseri è immersa nel divenire e, pertanto, non è altro che un essere-nel-tempo. 
  2. Il divenire-tempo, da un lato, fa dischiudere e maturare tutte le cose; dall'altro, le consuma portandole alla rovina: questa è la sua contraddizione.
  3. Il mutamento è l'essenza del tempo, che è divenire-altro-da-sé. Dalla percezione del mutamento a partire dai sensi esterni (coscienza delle modificazioni esteriori) e dal senso interno (coscienza delle modificazioni interiori) la mente produce lo schema numerico "tempo", e la categoria filosofica "divenire".
  4. Come ogni cosa possiede il proprio opposto, l'opposto del tempo è l'eternità: l'eternità è l'essere-senza-tempo, o il divenire imperituro. Il tempo, infatti, ha come risultato nelle cose un inizio, uno sviluppo e una fine, ovvero una nascita, una crescita/decrescita e una morte. Ma l'eternità è assenza di inizio, di sviluppo e di fine; di nascita, di crescita/decrescita e di morte, oppure inizio, sviluppo e fine; nascita, crescita/decrescita e morte continui, succedentisi in ripetizione incessante.
  5. Il mondo esperito dall'interno è sottomesso alla legge del tempo; il mondo intuito dall'esterno è, al contrario, eternità in movimento. Il tempo (kronos) è dunque l'eternità (aion) che si dispiega.  
                           

 

 

lunedì 16 aprile 2012


Physis ...


Identificazione dell'essenza del mondo


Qual è l'arché, il principio; qual è l'elemento fondamentale, la ragione ultima, l'essere in sommo grado, la sostanza prima delle cose che sono? Da una tale origine devono scaturire tutti gli enti ed esseri naturali, e anche le entità incorporee, ed essa deve essere inoltre ciò di cui tutti gli enti ed esseri naturali, e tutte le entità incorporee, si costituiscono, cioè la condizione della loro esistenza. Infine, essa deve essere al contempo la causa di tutti i mutamenti, del movimento e del divenire.
Vi sono, innanzitutto, due sole categorie di cose (con "cosa" intendo qualsiasi ente, essere o entità. Un ente è una cosa corporea non-vivente; un essere è una cosa corporea vivente; un'entità è una cosa incorporea prodotta da un corpo): i corpi e gli in-corpi. Ad esempio, l'uomo e il pianeta sono corpi, il pensiero e il calore sono in-corpi. Sia i corpi che gli in-corpi esistono, dunque chiamo entrambi col nome di materia. Materia è ciò che esiste. Si hanno allora una materia corporea e una materia in-corporea. 
Tutte le cose sono fatte di materia, corporea o incorporea. La materia corporea è inorganica oppure organica: la prima compone gli enti, la seconda gli esseri, perciò detti organismi. Le entità sono invece composte di materia sottile, inestesa e inconsistente, contrapposta alla materia spessa, estesa e consistente propria degli enti e degli esseri. Ma da che cosa è composta a sua volta la materia?
La materia è un aggregato di molecole, la molecola è un aggregato di atomi, l'atomo è un aggregato di quanti. Il quanto è l'indivisibile, giacché non ha parti. Dunque tutte le cose si costituiscono di quanti, e i quanti costituiscono tutte le cose. Eppure non è dal quanto che ha origine il Tutto: l'origine infatti non può che essere unica per tutte le cose, dimodoché il Tutto deriva dall'Uno. L'Uno è singolarità puntiforme che esplode e si espande. Quindi, se il quanto fosse l'origine, esso sarebbe l'Uno, e vi sarebbe un solo quanto a comporre tutte le cose. Ma le cose sono aggregati di quanti, e i quanti sono particelle elementari molteplici e distinte.
Bisogna allora trovare ciò che i diversi quanti hanno in comune tra di loro, e che sia allo stesso tempo comune anche agli altri aggregati. I quanti si uniscono a formare atomi, gli atomi si uniscono a formare molecole, le molecole si uniscono a formare materia. Tali composizioni unitarie sono costituite da parti legate in qualche modo tra loro. Ciò che lega le parti è sempre l'energia. L'energia è l'elemento comune a tutte le cose, in quanto è ciò che tiene insieme le parti che compongono le cose, mantenendo queste ultime nell'unità. 
La singolarità puntiforme iniziale è energia concentrata. Le particelle elementari si generano dall'energia espansa come emergendo da essa. Anche le particelle quindi nascono, mentre l'energia è da sempre, ingenerata. Ciò significa che non soltanto l'energia è ciò che unisce le particelle le une alle altre a formare gli aggregati, bensì essa è anche ciò che compone tali particelle aggregate; la loro "materia". I quanti sono vortici minuti e compatti d'energia, cumulatasi a formare un minimum di estensione e consistenza: è il primo spessore corporeo. Gli in-corpi, invece, sono nient'altro che le variegate forme dell'energia pura. 
Tutte le forze o interazioni avvenenti nel dominio della natura sono forze o interazioni energetiche. Il cangiamento di luogo e di posizione, la trasformazione, la generazione, la crescita, eccetera sono effetti dell'azione dell'energia, la quale è, pertanto, oltre che causa formale e materiale di ogni cosa, causa efficiente di ogni fenomeno chimico-fisico-psichico.
Tutto dunque è energia, talvolta manifestantesi come materia corporea, talvolta come materia incorporea, talvolta come fenomeno dinamico che include i corpi e gli in-corpi come soggetti attivi o passivi. La materia corporea è energia imprigionata in vortici e legami; la materia incorporea è energia pura indirizzata da un corpo a una funzione particolare; il fenomeno è l'agire determinato dell'energia.
   
La materia è energia; l'energia è anima. L'anima è il soffio o alito che dona la vita agli esseri, i quali si distinguono dagli enti proprio per il fatto di essere "animati", cioè viv-enti, o enti vivi. Essendo un fenomeno dinamico, la vita non può che essere causata dall'energia. Precisamente, si ha vita quando si hanno organi corporei capaci di raccogliere e sfruttare energia per generare processi chimico-fisico-psichici. La vita è la somma di tali processi, dunque l'energia coincide con l'anima, e conseguentemente con la materia.
Tutta la materia è animata, persino la materia corporea inanimata. Tale materia è inanimata non in quanto non possiede anima, bensì in quanto la possiede ma non ha sviluppato alcun organo capace di usufruirne. Le anime individuali sono allora frammenti dell'anima che pervade il mondo intero; anima del mondo che fluisce nei singoli esseri senzienti.
La materia-anima-energia è, in conclusione, l'arché, il principio; l'elemento fondamentale, la ragione ultima, l'essere in sommo grado, la sostanza prima delle cose che sono. Essa è l'origine da cui scaturiscono tutti gli enti ed esseri naturali, e anche le entità incorporee, e ciò di cui tutti gli enti ed esseri naturali, e tutte le entità incorporee, si costituiscono, cioè la condizione della loro esistenza, e la causa di tutti i mutamenti, del movimento e del divenire. In definitiva, l'essenza del mondo.  
 

 

 

giovedì 12 aprile 2012


Regime ...


Forme concrete del governo statale


Vi sono solamente tre forme legali di governo statale, e altrettante forme rispettive che sono invece degenerazioni illegali di quelle: monarchia, aristocrazia e democrazia le prime; tirannia, oligarchia e anarchia le seconde. 
Ognuna di queste forme si definisce come "potere": monarchia e tirannia sono il "potere" nelle mani di uno solo; aristocrazia e oligarchia sono il "potere" nelle mani di pochi; democrazia e aristocrazia sono il "potere" nelle mani di molti. La degenerazione non è altro che una mutazione dell'uno, dei pochi o dei molti: quando l'uno, i pochi o i molti da legittimi che erano si rendono illegittimi, ecco che la monarchia si tramuta in tirannia, l'aristocrazia in oligarchia, la democrazia in anarchia.
L'uno instaura il regime più stabile, in quanto forte nella volontà e celere nelle decisioni, eppure qui è più alto il rischio di abusi di potere; i pochi instaurano un regime mediamente stabile, in cui forza e celerità sono ridotte, ma volontà e decisioni risultano pur sempre efficenti, mentre il rischio di abusi si ferma, anch'esso, a un termine medio; i molti instaurano il regime meno stabile, debole nella volontà e lento nelle decisioni, ma il rischio di abusi di potere è, in compenso, il più basso. Rare sono le forme pure: vi sono, nella maggior parte dei casi, forme ibride in cui monarchia, aristocrazia e democrazia; tirannia, oligarchia e anarchia si mescolano assieme. Più precisamente, in ogni epoca è dominante un tipo di governo, e gli altri tipi, quando appaiono, si giustappongono al tipo dominante.
Ma non importa la forma del governo: ciò che importa è, piuttosto, la legge che sostiene il governo, di qualsiasi tipo esso sia. La legge è il fondamento; la colonna portante dell'edificio politico. 
Eppure può apparire l'eccezione, ovvero colui che viola la legalità pur rimanendo nella legittimità, colui che crea la legge giacché ne ha diritto in quanto uomo eccezionale. La sua forma di governo è la dittatura, l'auto-affermazione del proprio "potere", e l'apparire di questa forma di governo illegittimamente legittima, illegalmente legale, a volte codificata e prevista a volte no, si mostra come necessità: lo Stato, infatti, deve sussistere per evitare il disordine, che è la morte dello Stato stesso e dunque della società da esso amministrata.
Anche in tal caso, però, vi è degenerazione. Se nelle forme normali di governo tale degenerazione era una caduta nell'illegittimità, ora essa è l'indegnità di colui che governa, la bassezza dell'uomo incapace di scorgere il reale bene comune, e inabile nel comprendere il valore fondativo della legge. Ma l'illegalità medesima delle tre forme canoniche, in verità, non è data da altro che da questa indegnità e bassezza, quand'essa si presenta nell'uno, nei pochi o nei molti.
    

 

 

lunedì 2 aprile 2012


Abbraccio ...


Analitica dell'amore

 
Che cos'è l'amore? 
L'amore è passione verso l'Altro, e bisogno dell'Altro, e, di conseguenza, desiderio dell'Altro, sia esso persona, animale, cosa o attività: si ama un uomo o una donna; un cane o un gatto; un libro o un'idea (a esempio, la libertà); un mestiere o uno sport, ma, in ogni caso, si ama. In ognuno degli oggetti a cui si rivolge, l'amore soggettivo si declina in modo diverso; esso ha molteplici forme, eppure è uno in sé stesso.
Nelle occasioni in cui emerge, dunque, si vive il medesimo amore; non è esso ciò che muta, bensì ciò verso il quale si dirige. L'amore che abbiamo verso una persona cara e quello che abbiamo verso un animale, una cosa o un'attività, è esattamente lo stesso, eppure esso cambia il proprio abito esteriore e si mostra attraverso atteggiamenti differenti. 
Nell'amore, vi è sempre affetto profondo tra due termini. I termini possono essere un uomo e una donna, un uomo e un uomo, una donna e una donna, un uomo o una donna e un animale maschio o femmina, un uomo o una donna e una qualsiasi cosa materiale o immateriale, un uomo o una donna e una qualsiasi attività lavorativa o dilettevole, persino un uomo o una donna e un Dio di qualunque natura, e un uomo o una donna con sé stesso o sé stessa. Il sentimento affettivo è ciò che lega i due termini, uno dei quali è sempre dato come essere umano (tale essere umano è, pertanto, condizione di possibilità dell'amore, che si delinea allora come sentimento umano per eccellenza, e senza di esso non si dà amore alcuno) e li rende uno: l'amore, oltre a essere uno, unifica a sua volta i due.
L'amore è quindi legame affettivo tra due, dimodoché i due divengano uno. I due sono esseri/enti/entità separati tra loro, ovvero individui non affini, eppure complementari: l'amore è complementarità tra esseri/enti/entità non affini. Se non vi fosse diversità, non vi sarebbe nemmeno amore, giacché i diversi si attraggono; gli affini si respingono: ecco una legge universale della natura.

La diversità tra la persona e l'animale, o la cosa, o l'attività è evidente. La diversità, più sottile, che intercorre tra persone si delinea come differenza di sesso: due esseri umani sono diversi in quanto uno di loro è maschio, mentre l'altro è femmina. L'amore tra persone è sempre tra un maschio e una femmina, mai tra maschio e maschio, o tra femmina e femmina. L'omosessualità non fa eccezione: essa è amore tra un uomo-maschio e un uomo-femmina, o tra una donna-maschio e una donna-femmina; la differenza di sesso non è esclusivamente fisica, bensì spirituale e caratteriale, sicché vi è un'indole mascolina e un'indole femminea, che si manifestano in corpi maschili o femminili.
Tra gli amori personali si hanno: l'amore parentale o di sangue, l'amore amichevole o amicizia e l'amore sessuale o amore in senso stretto. Il primo è amore tra membri di una stessa famiglia, tra i quali è interdetto il rapporto carnale; di norma, tale amore si fa meno intenso quanto più ci si allontana dal grado di parentela, e quanto meno è il tempo condiviso insieme (si ama la madre e il padre prima di tutti, poi il fratello e la sorella; quindi i nonni, i cugini di primo grado, gli zii di primo grado, e via dicendo). Il secondo è amore tra uomo e uomo, o tra donna e donna, o tra uomo e donna, non appartenenti alla medesima famiglia e in cui l'attrazione carnale sia assente, o latente, o presente ma non corrisposta e dunque non soddisfacibile; è più semplice che nasca amicizia tra uomo e uomo, o tra donna e donna, piuttosto che tra uomo e donna (in quanto l'amicizia tra uomo e donna spesso si risolve in amore sessuale), e tra uomo e uomo piuttosto che tra donna e donna (in quanto l'amicizia è, per i maschi, un bisogno primario, per le femmine, invece, un bisogno secondario). Il terzo è amore tra maschio e femmina in cui l'attrazione carnale è presente, consapevole e corrisposta, e si traduce prima in aspettativa dell'unione-fusione sessuale, poi nell'unione-fusione sessuale stessa, e quindi nella perpetuazione di tale unione-fusione sessuale; eterosessualità, omosessualità e bisessualità sono le modalità in cui tale tipo di amore si attua nel campo delle relazioni umane. 
In tutti gli amori personali la carnalità ha ruolo preponderante, sia essa negata o affermata. Nell'amore sessuale, dove essa è affermata, quando l'attrazione viene meno, questo tipo di amore, in quanto tale, scompare inesorabilmente, e permane l'affetto: si ha allora la trasformazione dell'amore stricto sensu in amicizia. 
L'amore personale, di qualunque tipo esso sia, si esprime sempre nei sentimenti di stima e di fiducia. Non si può amare una persona se non si ha stima di lei, e se non si ha fiducia in lei; quando scemano la stima e la fiducia, scema la passione sino a giungere all'indifferenza (in questo caso la relazione può sussistere solamente come legame coattivo o inerziale). 
Amando io desiderio la presenza e il contatto con l'amato, sia anche contro la sua volontà e il suo bene (l'amore è infatti essenzialmente egoista). Tale desiderio è anche desiderio che il mio proprio desiderio sia corrisposto, cioè desiderio di reciprocità: il primo obiettivo dell'amante è destare l'amore nella persona amata, in modo da rendere questo amore reciproco. La relazione amorosa è, appunto, questa reciprocità del desiderio attuata, e che vuole essere rinnovata all'infinito.
Per via della sua natura egoista, l'amore si traduce spesso in odio, quand'esso viene deluso. L'odio non è altro che la forma contraddittoria dell'amore rifiutato, tanto grande quanto era grande l'amore originario, di cui è il sostituto e l'erede designato.
La gratitudine, infine, è una rimanenza d'amore che permane e prolunga l'amore stesso oltre il proprio termine: così soltanto l'amore diviene "eterno", o meglio, sempiterno, quand'anche non sia più strabordante e impetuoso come in passato.  
L'amore personale è la forma più alta dell'amore, giacché è quella più ancorata alla concretezza materiale-spirituale, essendo posto in gioco uno scambio di vite, un dare e un avere, un donare e un ricevere; essa è simile a una lotta o a una danza tra opposti, e così si inscrive nell'ordine generale del mondo.

In generale, l'amore è un tendere verso l'Altro per appropriarsi dell'Altro; volontà di possesso che si dispiega passando attraverso il flusso di piacere (il cui culmine è l'orgasmo, cioè la compenetrazione totale ed estatica delle anime) e dolore (il cui culmine è la morte, cioè l'allontanamento definitivo e la separazione eterna) senza però necessariamente risolversi nel possesso vero e proprio; spesso infatti l'equilibrio armonico-musicale tra i due si instaura in senso paritario, o senza che l'ideale definitivo sia mai raggiunto pienamente. Quando l'ideale del possesso è raggiunto, l'amore perisce o non perisce con esso, a seconda che il bisogno di possesso perduri o meno; solo allora si rivelerà il vero volto della tensione esperita: un capriccio temporaneo o un'autentica necessità.
L'amore può essere immediato oppure nascere dal tempo, eppure la relazione amorosa non è mai immediata, bensì si edifica nell'istante costruendosi col tempo. La sua precarietà è il rischio del crollo dell'edificio e della distruzione di ciò che è stato costruito con fatica.  
L'amore è inscindibile dalla sessualità: persino l'amore impersonale non è altro che sessualità sublimata, giacché un'energia di natura sessuale viene incanalata e indirizzata verso altri fini; impiegata per scopi non sessuali. La sessualità è erotismo e violenza; una mescolanza di creatività e distruttività in cui a volte prevale l'una e a volte l'altra in un gioco di contrapposizioni simultanee o successive.
Che l'amore sia innocente e puro, o colpevole e corrotto; che sia ingenuo e immaturo, o consapevole e responsabile; che sia sacro o profano, breve o durevole, esso è sempre vero: la percezione interiore è, infatti, genuinità incarnata. 
L'amore è, in conclusione, un vortice implacabile di gioia e sofferenza senza il quale l'uomo sente sé stesso come manchevole e la propria vita come incompleta; da tale mancanza e incompletezza, ma soprattutto dalla soppressione-repressione di questa passione, bisogno, desiderio (che sono la passione, il bisogno e il desiderio sommi), deriva l'infelicità disperata o arida di chi è impossibilitato a o incapace di amare.


 

 

mercoledì 28 marzo 2012


Ideologia ...


Condanna dell'ideologia neocapitalistica e apologia dell'inutile e dell'inefficace


Utilitarismo e pragmatismo sono le due facce, a livello sociale, dell'ideologia contemporanea chiamata Neoliberismo: solamente ciò che è utile ha valore; solamente ciò che ha efficacia pratica è vero. 
Simile a una malattia epidemica, tale concezione si è diffusa in ogni angolo della società umana, corrompendo gli animi ed erodendo come un tarlo le fondamenta dello spirito: l'animo infatti si nutre di inutili sentimenti e passioni, e lo spirito è teoria inefficace prima di ogni altra cosa. 
Nei domini del Neocapitalismo l'utile è il profitto materiale immediato, ed efficace è l'azione che porta a un successo altrettanto materiale e immediato. Da tale definizione dell'utile e dell'efficace vengono tagliati fuori la percezione interiore e il pensiero intellettivo: l'amore e l'amicizia non possiedono valore; le idee e i pensieri non contengono verità. 
Che cosa rimane? L'uomo viene ridotto ad automa puramente razionale, inanime ente meccanico privo di energie vitali; la cultura viene ridotta a mera Scienza, e l'Arte, la Religione, la Filosofia sono pertanto bandite. Non si sfugge alle conseguenze: l'infelicità e la miseria.

La domanda che ci si pone di fronte a una qualsiasi opzione, quando si deve decidere del proprio agire, è: a che cosa serve? Ed ecco che trionfa l'opportunismo su ogni altro atteggiamento pur di gran lunga più dignitoso. L'utilità e l'efficacia pratica limitano in tal modo la portata del desiderio, e le innumerevoli possibilità si riducono a una, ovvero alla scelta peggiore, quella non voluta. La domanda dovrebbe invece essere: lo desidero realmente? Così viene cancellato l'errore, giacché la volontà non mente e, soprattutto, apre alla relazione con l'altro.
L'utilitarista-pragmatista vede l'altro esclusivamente come mezzo per raggiungere uno scopo, che il più delle volte si delinea come ricchezza e potere (la ricchezza porta con sé il potere); la persona diviene cosa, e come tale viene usata. L'inessenziale rapporto con la cosa fa a meno di qualsiasi attaccamento affettivo; la relazione è invece una persona che si rapporta a un'altra persona e tale relazione essenziale è già un fine in sé stessa.

Soltanto la volontà e il desiderio, e non l'utile e l'efficacia pratica, portano al benessere. Il profitto e il successo non sono niente: il primo si esaurisce in fretta, il secondo non insegna nulla (l'apprendimento avviene, piuttosto, mediante gli insuccessi). Le cose di maggior valore sono quelle che non possono essere comprate e la verità esula dall'azione, in quanto si raggiunge mediante la contemplazione concentrata. 
La ricchezza e il potere spirituali sono, in definitiva, l'autentica ricchezza e l'autentico potere.


 

 

domenica 25 marzo 2012


Eternità ...


Descrizione dell'uomo eroico


Eroe, da eros (amore, passione carnale), è appunto un amante; un uomo immensamente passionale. Egli è, propriamente, colui che dona anima, spirito e corpo all'affermazione di sé stesso, compiendo atti straordinari per amore di sé stesso. 
L'atto straordinario si traduce nella grande impresa, ovvero l'impresa inconcepibile e inattuabile per qualsiasi altro uomo, giacché richiede forza, coraggio, intelligenza e abilità superiori. L'eroe, sovrumano, si distacca dunque dalla norma dell'uomo comune, con le sue capacità più o meno mediocri.
La grande impresa non può che essere un'impresa volta alla gloria, oppure alla protezione degli uomini, giacché lo scopo di tale azione benefica derivante da passione esuberante è mostrare la propria elevatezza di fronte alla massa dei non-elevati, manifestando così l'infinita potenza ed eccellenza della propria persona. In tal modo, al contempo, si dimostra a sé stessi di essere grandi, e si diviene consapevoli di sé stessi e della propria grandezza.
Da un tale sano e fiero egoismo, colmo di superbia ma non di arroganza, deriva, in definitiva, l'eroismo di chi pone a sé stesso sempre nuove sfide, dirigendosi oltre i propri limiti; superandosi continuamente e sacrificandosi; ardendo, consumando e rinnovando interamente le energie in nome del proprio Ego sconfinato, sino a esaurirle tutte con la morte; alimentando la sorgente impetuosa del proprio orgoglio altero.
L'eroe non possiede modestia, non è mai umile: la sua caratteristica essenziale è la tracotanza; l'eroe non è mai un virtuoso, e non possiede senso del dovere: egli è, piuttosto, legato inscindibilmente al vizio, cui crede di avere diritto, e al senso del volere, suo unico padrone. L'incarnazione di ciò che l'uomo medio non può mai essere, per pavidità, per debolezza o anche per responsabilità.
Dimostrando una fede incrollabile nel proprio essere, nella propria natura e in null'altro, con le proprie mani egli forgia sé stesso, affrontando le vicissitudini del fato nel godimento e nella sofferenza senza misura del desiderio, scegliendo per sé un destino terribile e vitale che lascerà un segno indelebile nei secoli dei secoli.
  

 

 

lunedì 19 marzo 2012


Sacer ...


Dio, il Divino, la Divinità. Prove dell'esistenza


Dio, o meglio: il Divino; meglio ancora: la Divinità, ci dà le prove della sua esistenza. 
Dicendo "Dio" affermiamo una personalizzazione, un essere ingenerato a noi somigliante, ma superiore in quanto possiede attributi umani potenziati all'infinito (una volontà onnipotente, un'intelligenza suprema e onnisciente, una presenza universale o onnipresenza, una durata perenne o eternità, una perfetta facoltà di giudizio e una piena misericordia, a volte addirittura un volto austero e barbuto, dall'aspetto solenne): tale essere superiore antropomorfo non esiste affatto; è un parto della fantasia cui attribuiamo la nostra immagine e le nostre facoltà assolutizzate; l'unico modo in cui l'umanità ha potuto pensare l'impensabile. 
Dicendo "il Divino" compiamo un passo ulteriore, in quanto si ha una spersonalizzazione e si elimina, quindi, la prospettiva antropomorfica: si è ora concentrati sul puro concetto scevro di fantasia. Eppure la declinazione maschile dell'espressione ci confonde, giacché automaticamente provoca nella nostra mente la rappresentazione dell'Uomo, rischiando di farci ricadere nella precedente immagine del Theos-antropos (Dio-uomo).
Dicendo "la Divinità" giungiamo infine all'espressione adeguata. Risulta infatti difficile immaginarsi una Dea, cioè un essere superiore avente sembianze femminili, a causa dei limiti intrinseci della femminilità, e pertanto si taglia definitivamente fuori l'essere umano, aprendo contemporaneamente la strada all'idea originaria di una divinità della Natura, che ha nella Madre, e non più nel Padre, la sua rappresentazione archetipica: questo è il vero concetto.

La Divinità ci dà dunque le prove della sua esistenza: nell'incredibile ordine naturale o Cosmo, in quanto si genera dal disordine o Caos; nella nascita dell'Universo a partire dal mistero della Grande Esplosione (Big Bang), prima della quale è il Nulla ineffabile, e nella sua finitezza, oltre alla quale è ancora il Nulla ineffabile; nelle Forze o Interazioni Fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte e nucleare debole), delle quali si può spiegare il "come", ma non il "perché", cause incausate dei fenomeni; nella straordinaria fenomenologia delle stelle, in cui si mostra, evidente, un processo vitale; nell'apparizione apparentemente accidentale della vita sulla Terra con l'animarsi spontaneo della materia organica, auto-organizzantesi nell'elemento del codice genetico, ovvero il DNA; nel venir-fuori e svilupparsi degli esseri dal seme e dalla spora, dall'uovo e dalla larva, dal grembo e dal germe; nell'evoluzione dirigentesi da sé verso un fine che nessuno ha stabilito, che è mutazione, affermazione e soprattutto superamento in vista di una maggiore perfezione, cioè manifestazione di un istinto di potenza; nell'avvento evolutivo della Mente e dello Spirito immateriale con le sue innumerevoli capacità espressive (Arte, Religione, Filosofia, Scienza, Politica) all'interno dell'Uomo, a partire da una materia grigia inespressiva; nella mobilità e attività naturale degli elementi: acqua, aria, terra, fuoco e fulmine, quinto elemento ed energia compressa, circondati da un'aura magica. In tutto ciò si esprime il Sacro per coloro che sono capaci di scorgerlo: per i ciechi v'è invece il Nichilismo.