lunedì 3 dicembre 2012

Destrudo ...


Violenza collettiva e antidoti statali


Che vi sia un istinto di morte operante a fianco del più evidente istinto di vita, e forse proprio in funzione di questo, è un dato di fatto innegabile, di cui si trovano esempi quantomai numerosi e lampanti nei fenomeni sociali. Che ciò sia un problema politico, di quella politica che non si rifiuta di amministrare la vita collettiva in tutti i suoi aspetti molteplici ed anche in quelli che sembrano non riguardarla da vicino, è cosa che non si deve fare a meno di rimarcare e su cui non si può non insistere, tanto è importante. 
Tra gli accadimenti in cui è celato il desiderio di morte, che si rivolge contro gli altri prima di tutto, ma anche contro sé stessi se nell'atto precedente si è bloccati da una sorta di pudore o timore morale, vanno citati quelli che risultano essere i più eclatanti e che si verificano a livello della vita associata: il bullismo, la violenza negli stadi e la violenza di piazza. In tutti e tre questi fenomeni la morte si esprime come agressività cieca che vuole essere sfogata, e che, se non fosse per le limitazioni concrete che fanno da ostacolo, si risolverebbe addirittura nell'annientamento.
Nel bullismo, manifestazione propriamente giovanile, si ha un raggruppamento di individui che usano la propria forza per soggiogare individui più deboli, senza alcuna motivazione o causa effettiva. L'aggressione, che è psichica e fisica assieme, non avviene per difesa da un pericolo, né per prevenzione a seguito di una minaccia, ma si mostra come sostanzialmente gratuita. Qui, attraverso un avvenimento pretestuoso, si mira semplicemente a estrinsecare una volontà di dominio sottomettendo l'altro al proprio volere fino a danneggiarlo nella sua integrità. Questa dimostrazione di violenza autoritaria finisce per fornire un esempio di vita onorevole sia per i maschi, i quali sogliono imitarla nel desiderio di conquistarsi rispetto e considerazione, sia per le femmine, che sembrano prediligere i tipi del genere nella scelta del partner. Un'educazione siffatta non può che tramutarsi nel culto della forza bruta, il quale, se mantenuto anche in età adulta, si presenta come una minaccia per l'ordine sociale. 
Negli scontri verbali e maneschi che avvengono negli stadi durante i giochi sportivi, tra le tifoserie opposte e tra queste e le forze dell'ordine, si amplia il numero degli individui interessati. Anche in questo caso le motivazioni e le cause si mostrano come dei pretesti irragionevoli per trarre fuori da sé una tensione accumulata. La violenza è indiscriminata, in quanto le distinzioni settarie su cui si applica non hanno nulla di logico; è come se un demone si impossessasse uno ad uno dei componenti della folla portandoli alla follia, in un contagio difficilmente arrestabile e che coinvolge tutte le parti protagoniste. A farne le spese è l'immagine di una nazione, che diviene preda degli altrui giudizi di inciviltà, di fronte al resto del mondo e anche di fronte a sé stessa, ovvero alla propria cittadinanza. 
Negli avvenimenti conflittuali che riguardano le manifestazioni di piazza, ancora tra cittadini di diverse fazioni e tra questi e le forze di polizia, il coinvolgimento della politica è maggiormente visibile; anzi, al contrario delle due forme precedenti questa forma di espressione violenta ha delle motivazioni e delle cause generali ponderate. Eppure, nonostante ciò, e nonostante l'utilità sociale a cui codesto tipo di violenza si piega (su tale affermazione, che la violenza di piazza possieda un'utilità sociale, certamente in molti non saranno d'accordo, ma non sono io, in realtà, a sostenere questa posizione azzardata: è la storia stessa con i suoi eventi, piuttosto, a sostenerla), il solo fatto che vi sia un'esigenza popolare di manifestare il proprio dissenso nei confronti dell'autorità statale è un problema, giacché dimostra la presenza di un'insofferenza diffusa tra le moltitudini soggette al potere. 
Ora, il compito di una politica assennata non è quello di reprimere le espressioni sociali deleterie una volta sorte - così infatti il problema non viene affatto risolto - bensì quello di prevenire il loro prodursi; se ciò non avviene la politica non può essere detta politica sana, perché ne va del mantenimento dell'ordine generale. Alla radice della violenza sconsiderata degli atti di bullismo, degli scontri negli stadi, degli scontri di piazza e di qualsiasi altro avvenimento del genere, sta sempre un malessere interiore del singolo, di stampo prettamente nichilistico, derivato da condizioni sociali disagiate (dallo stato di povertà familiare al vivere in un ambiente malfamato; dall'assenza o disinteresse dei genitori all'influenza delle cattive compagnie, e così via dicendo): se ciò è vero, allora eliminando questo disagio profondo si preverrebbe anche l'insorgere della violenza mortifera. Ma il malessere sociale non può essere eliminato se non in un modo: attraverso l'assistenza statale rivolgentesi a tutti quei casi speciali che, in quanto tali, fuoriescono dalla norma dell'esperienza vissuta ordinaria, in modo da annullarne il potenziale negativo mediante programmi mirati al riempimento delle mancanze economiche, affettive e valoriali.
   

Biologia ...


Discorso sulla natura della vita e fenomenologia della morte


Per poter comprendere la morte occorre innanzitutto comprendere la vita. La morte infatti della vita non è l'opposto, come si suole pensare, bensì la sua estremità finale, così come la nascita ne è l'estremità iniziale: la morte è allora l'opposto della nascita.
Detto questo ci si chiede: "che cos'è la vita?". La vita si mostra come un processo chimico-fisico-psichico che si individua in un gruppo determinato di enti che chiamiamo enti vivi, o esseri viventi. La peculiarità di tali esseri è il fatto di essere in grado di muovere da sé le proprie parti interne ed esterne in vista della conservazione e della crescita. Ma che cos'è che fa sì che essi possano muoversi in tal senso? Quale elemento li distingue dagli enti ordinari inabili alla vita?
Sovente si appellano gli esseri con l'aggettivo "animati" in sostituzione di "viventi". Se "animato" e "vivente" sono sinonimi, allora anche i termini dai quali codesti aggettivi derivano devono essere tali, e dire "anima" è quindi identico a dire "vita". L'identità di anima e vita è presente sin dagli albori del pensiero umano, sia in Occidente sia in Oriente. Coniando il concetto di anima si è appunto voluto dare un nome a quell'elemento misterioso che si suppone renda vivi alcuni tipi di enti e non invece altri. Che un'anima sussista ed esista è cosa certa, altrimenti non vi sarebbe modo di distinguere, ad esempio, un animale da una pietra. L'anima è pertanto la causa della vita in quegli enti che ne possiedono il privilegio, ma bisogna scovare in che modo questa causa agisca a generare il processo chimico-fisico-psichico vivificante.
La differenza tra l'animale e la pietra è che il primo presenta in sé un anima attiva che gli permette di sviluppare il movimento. Dal punto di vista strettamente scientifico qualsiasi tipo di processo motorio, interno od esterno che sia, ha bisogno di un'energia per avere luogo; senza l'apporto energetico necessario nessuno sforzo può darsi, e dunque nessun tipo di moto. L'energia dona la spinta dalla quale si genera ogni lavoro, intendendo quest'ultimo come un muoversi finalizzato a un qualche scopo. Ciò significa che se la vita è movimento interiore ed esteriore, e se l'anima è, agendo, la causa della vita, allora l'energia, che è causa del movimento, è anche causa della vita e coincide con l'anima stessa. Ma se l'anima è energia allora essa non può essere l'elemento di distinzione tra enti inanimati ed esseri viventi, in quanto sappiamo che l'intera materia non è altro che energia condensata in una forma consistente.
Se ciò è vero, se sia gli enti inanimati sia gli esseri viventi possiedono un'anima-energia, la distinzione fondamentale deve essere ricercata altrove, ovverosia nel corpo. La differenza tra un animale e una pietra è infatti che il primo possiede un corpo in grado di sfruttare l'anima-energia presente al suo interno, e procurata dall'esterno mediante la nutrizione, per produrre movimento. Egli fa ciò mediante i suoi organi interni e le sue membra esterne, organi e membra che l'altro non possiede. Organi e membra sono allora gli elementi discriminanti tra ente inanimato ed essere vivente. 

La vita è quindi anima-energia che agisce con l'ausilio delle strutture corporee. Ciascuna vita è legata a un singolo essere e ne condivide la durata; ha un inizio e una fine che si delineano come nascita e morte dell'essere in questione. La nascita è generazione a partire dall'unione di una coppia di altri esseri, specificamente maschio e femmina. La morte è invece decomposizione, anche qui verificantesi, in parte, per mezzo dell'azione di altri esseri viventi (batteri soprattutto), di cui diveniamo nutrimento, e in parte ad opera degli enzimi non più trattenuti nelle cellule, i quali liberandosi innescano una sorta di auto-digestione dei tessuti, disgregandoli. Ma se questa è la sorte del corpo, quale può essere la sorte dell'anima? Tutti gli esseri animali si nutrono esclusivamente di materia solida, ed estraggono energia da questa materia. Gli esseri vegetali, al contrario, sono in grado di sintetizzare da sé il nutrimento materiale a partire dall'energia della luce solare, e dunque non si nutrono di corpi. Nessun essere che si nutra di corpi è capace di procurarsi energia direttamente e di sfruttare l'energia pura. La sorte dell'anima pertanto non coincide con la sorte del corpo. 
L'anima-energia, non essendo corporea, non può decomporsi. Ma se si definisce la morte come decomposizione delle strutture corporee, si giunge alla conclusione che essa non può morire, e risulta essere quindi immortale. La morte però, più precisamente, può essere definita come cessazione delle funzioni vitali a seguito del deterioramento delle strutture corporee, quand'esse siano colpite e irrimediabilmente danneggiate oppure si usurino progressivamente per via dell'uso continuato, rovinandosi da sé, mentre la decomposizione è piuttosto un processo che si verifica in un tempo successivo, a morte già avvenuta: essa è la morte propria della materia non-più-vivente. L'anima, certamente, cessa di agire quando non ha più il supporto materiale adatto alla sua azione; quando cioè gli organi e le membra che le permettevano di far sorgere il movimento vitale non sono più in condizioni di sfruttare l'energia per compiere un qualsiasi lavoro. In questo senso l'anima muore con la morte del corpo, pur senza dissolversi.
Quest'anima che prima fluiva in un corpo e che ora è impossibilitata ad agire non scompare, ma, una volta esaurita, permane nella sua condizione originaria di elemento sostanziale presente in ogni corpo materiale, ed anche al di fuori dei corpi come energia allo stato puro. Essa allora è sempre presente ovunque, e la morte dell'individuo non intacca il suo essere unitario come anima del mondo, né la sua capacità di agire in altri modi al di fuori dei processi chimico-fisico-psichici che sono propri degli esseri viventi. 
   

Precorrimento ...


(Forma metrica: ballata)


Sorella Morte


Diligente giungi, Sorella Morte
a por fine ai respiri
affinché la Vita altra vita ispiri
e ancor durare possa la sua sorte.

Solenne e impietosa meta si staglia
all'orizzonte, tetra e spaventosa;
l'esistenza nostra è fuoco di paglia
che si consuma con fiamma dolosa:
vedremo ancora la luce che abbaglia
nel gaio al-di-là di brama smaniosa
quando dovremo oltrepassar la soglia
o sarem noi stessi luce vistosa?

Il corpo ch'eternamente riposa
si fa terra e alimento;
eppur l'anima non avrà tormento
ma beatitudine come consorte.

Diligente giungi, Sorella Morte
a por fine ai respiri
affinché la Vita altra vita ispiri
e ancor durare possa la sua sorte.