venerdì 15 febbraio 2013

Deriva ...


Progetto politico su diritto allo studio, diritto al lavoro e speculazione finanziaria


Il diritto allo studio e il diritto al lavoro sono le più grandi conquiste giuridiche della nostra epoca. Assicurare lo studio e il lavoro significa far sì che lo Stato garantisca per legge la loro possibilità, non semplicemente come libertà di, bensì inoltre come dovere di. A ogni diritto infatti corrispondono parimenti una libertà e un dovere del medesimo tipo: la libertà di svolgere determinate attività della mente e della mano in funzione della realizzazione dei propri desideri, la libertà di scegliere tra varie opzioni possibili riguardo a come indirizzare la propria vita a piacimento, non può che essere controbilanciata da un dovere o obbligo di impegnarsi in codeste attività teoretiche e pratiche per il bene della collettività, entro limiti stabiliti; così soltanto possono coniugarsi l'interesse individuale e quello generale. Ciò vuol dire allora che l'analfabetismo e la disoccupazione risultano essere, oltre che piaghe sociali, fenomeni illegali e anticostituzionali, da sopprimere in quanto tali attraverso una politica adeguata (se si crede che questo sia impossibile totalmente in una società dalla popolazione numerosa, si convenga però sul fatto che è certamente possibile in misura quasi totale, e numerosi Stati del mondo stanno lì a dimostrarlo. Portare la percentuale di analfabetizzazione vicino allo 0% e quella di disoccupazione vicino all'1 o al 2% dovrebbe essere, beninteso, l'obiettivo di qualsiasi governo).
Posto ciò, occorre altresì operare una distinzione tra due categorie di attività: da un lato l'attività che ha come fine il mero profitto personale, senza riguardo alle esigenze del corpo sociale o addirittura ponendosi in contrasto con esse; dall'altro l'attività che ha come fine proprio l'utilità sociale, e che fa della garanzia di un sostentamento economico il mezzo per raggiungere tale fine. Il senso della pratica lavorativa si incarna evidentemente in quest'ultima categoria, giacché è logico che non è possibile umanità né civiltà alcuna senza uno Stato che doni ad ognuno i beni e i servizi essenziali all'esistenza associata, sopperendo ai bisogni fondamentali. Secondo quest'ottica tutti quegli insegnamenti e mestieri che non fossero in qualche modo, dunque direttamente o indirettamente, portatori di un vantaggio, non necessariamente economico e materiale, ma anche culturale e spirituale, dovrebbero essere proibiti e impediti. Eppure accade che, nel contesto occidentale e non solo, vi siano mestieri, e relativi insegnamenti, legati a una pratica che nel migliore dei casi si delinea come a-sociale, cioè socialmente indifferente, e nel peggiore dei casi come anti-sociale, cioè socialmente deleteria: questa pratica è la speculazione finanziaria - sia essa speculazione al rialzo oppure al ribasso, al coperto oppure allo scoperto - la quale domina in lungo e in largo le economie capitalistiche odierne più che quelle passate. Non si contano le bolle speculative, le perdite di capitali, le sottrazioni di ricchezza causate dall'esercizio di codesta attività manifestantesi, pare, esclusivamente in forme nocive per la collettività, a vantaggio di pochi individui e raggruppamenti di individui. Minando la comunità in quella che è la sue base (la collaborazione degli uomini in vista di un bene maggiore) e minacciando la stabilità finanziaria degli Stati, la pratica della speculazione va innanzitutto regolamentata in modo da risolverne le incongruenze più eclatanti e arginarne le conseguenze più estreme - ad esempio per quanto concerne il mercato degli strumenti derivati - e infine abolita del tutto in un processo che sia graduale ma nondimeno inesorabile.